Attraverso lo specchio c’è… Italo Calvino

Al Salone Internazionale del libro di Torino non sono passati in sordina i Grandi classici della letteratura italiana. E tra questi merita un posto d’eccezione Italo Calvino, intellettuale a tuttotondo che, durante i suoi lunghi anni all’estero, mantenne sempre un rapporto viscerale con la Madrepatria. Fabio Gambaro in “Lo scoiattolo sulla Senna” racconta quindi il rapporto tra Calvino e Parigi, città che ospitò l’autore durante la stesura di alcuni dei suoi capolavori: Le città invisibiliIl castello dei destini incrociati e Se una notte dinverno un viaggiatore. Calvino, viaggiatore di sé stesso, visse qui per tredici anni, periodo cardine nella sua evoluzione di scrittore. A Pavese si deve la gloria di avere riconosciuto in Calvino “uno scoiattolo della penna”. Ma se la penna accompagnò l’Autore per la durata intera della sua vita, la Senna ne irrorò i pensieri e l’animo per gli anni tra il 1967 e il 1980. Parigi era allora la capitale della cultura europea, fucina di idee e riflessioni che influenzarono l’Europa intera: il Nuovo Teatro, il tramonto dell’Esistenzialismo, l’alba dell’esperienza letteraria di Barthes e dello Strutturalismo. Parigi, una città iperletteraria che aveva abitato i pensieri dell’Autore soltanto tra le righe dei Poeti francesi che ne lustravano le meravigliose gesta e che ne avevano condotto le virtù alle orecchie attente dei più grandi letterati europei.

Gambaro si è interrogato sulla genesi del trasferimento di Calvino a Parigi. Fu verso la metà degli anni ’60 che due cruciali eventi modificarono il corso della sua vita. Il primo va ricercato nelle nozze dell’Autore, celebratesi nel 1964, con un’argentina trasferita a Parigi, città che fece da sfondo al loro primo incontro. Dopo un primo fallimentare tentativo di vita coniugale a Roma, decisero di tornare a Parigi – sua moglie, fortemente indipendente, avrebbe avuto qui più possibilità di svolgere al meglio il suo lavoro da interprete. Il secondo evento è, invece, radicato in ragioni più strettamente culturali. La cultura italiana, ormai arenatasi in una generale vocazione al Neorealismo, trovava il disaccordo più profondo di Calvino che, di riflesso, smise di sentirsi parte di quella vecchia cultura di sinistra di cui aveva fatto attivamente parte. Calvino cominciò così a rifiutare a gran voce il ruolo istituzionale di scrittore che, suo malgrado, era continuamente (e pubblicamente) chiamato a essere. Alla notorietà di scrittore, continuamente interpellato per interviste e discussioni politiche, avrebbe forse preferito quell’intima propensione alla fatica delle carte scritte. Parigi rappresentò, dunque, la scelta di una vita dedita all’intima riflessione di sé; l’autodichiarazione di un uomo che voleva essere soltanto tale, almeno per un po’, almeno fintantoché sarebbe durata la frenesia tutta italiana della novità a tutti i costi. Gambaro, a tal proposito, ha più volte ricordato i toni che Calvino riservava alla capitale francese: Calvino diceva sempre che a Parigi aveva la sua casa di campagna, un posto sicuro in cui potersi ritirare nella solitudine del suo mestiere. Per lui Parigi era quella città in cui non cera bisogno di chiedersi il perché delle cose”. Insomma, se Lui ora fosse qui e gli si chiedesse: “Maestro, perché Parigi?” c’è il forte sospetto che, con toni mansueti, risponderebbe con un lapidario “Perché no? ”. 

Sembra così che lo scenario Parigino si presti alle migliori fantasticherie del Calvino scrittore: qui si sente, a suo dire, finalmente anonimo. Gambaro, tuttavia, ci mette in guardia dal credere alle parole di Calvino contro ogni ragionevole dubbio. Il motivo profondo del suo apparente isolamento si deve forse più al suo personalissimo temperamento. Quell’”Eremita a Parigi” – con il testo omonimo pubblicato postumo – sembra più essere, quindi, un’eremita di fatto: la sua estrema riservatezza non gli permetteva di esporsi all’altro, ma anzi lo teneva sottochiave in quel castello di regole precostituite, elemento fondamentale del Calvino uomo e del Calvino scrittore. Per quest’ultimo l’opera letteraria nasce dalla creazione aprioristica di regole da rispettare: la sfida letteraria è un gioco (anzi, il gioco) che l’autore deve vincere. Fu questa sua autoimposta osservanza delle regole letterarie che lo fece avvicinare, come in un’epifania artistica, al movimento dell’OuLiPo. La scrittura a restrizione fu la vera chiave di volta che segnò il sodalizio tra Calvino e le nuove idee letterarie della Parigi degli anni ’60. 

Il Nostro, tuttavia, non abbandonò mai (almeno con lo spirito) la Madrepatria: ogni mattina si prendeva la briga di recarsi da casa sua – sita al sud di Parigi – verso le edicole del centro con l’unico scopo di acquistare i giornali italiani. E sebbene i propositi da eremita siano stati perlopiù portati a compimento, la figlia racconta come gli ottimi bolliti della moglie bastassero al Calvino uomo per superare la timidezza e invitare a cena qualche amico-collega (che non sia anche questo un residuo dell’animo conviviale italiano?). 

Alla luce di quanto fin qui detto, potrebbe sembrare strano che Calvino non abbia mai scritto un romanzo dedicato a Parigi, scenario che tanto mutò l’ordine precostituito della sua esistenza. Tuttavia vi sono delle tracce disseminate che raccontano l’esperienza di vita francese. Si fanno omaggi, più o meno espliciti, alle atmosfere noir e spirituali della città più che alla sua descrizione fisica. In “La poubelle agréée”, Calvino dichiara che una delle poche cose che faceva in casa era portare fuori la spazzatura: un rituale tutto intimo e profondo, punto di partenza per un’intensa riflessione su sé stesso, sul cibo, sul riciclaggio, su Parigi, sulla cultura. 

Per concludere, Gambaro sottolinea la correlazione tra Parigi e il Calvino politico: è qui, infatti, che egli decise di pubblicare le opere di Fourier, le cui idee sì rivoluzionarie, ma ispirate da un rigore antireazionario, sarebbero state la risposta di Calvino al Sessantotto. Calvino tenta, in questo modo, di offrire ai connazionali un’alternativa alla rivoluzione attiva e ispirata allo slancio esistenziale che, invece, sarebbe dovuta piuttosto partire dalla forza della ragione. 

Il vero Calvino (insieme uomo, politico e scrittore) appare, infine, nelle tre grandi Opere sopracitate che lo hanno reso celebre. Sono romanzi estremamente strutturati che Calvino scrisse sotto l’insegna di una dichiarata sofferenza, come egli stesso dichiarò (“Per me la scrittura non è un piacere, è una sofferenza”) ma che, senza l’esperienza parigina, non avrebbero forse mai conosciuto luce e fama. Dichiarò che, potendo scegliere, avrebbe voluto esalare l’ultimo respiro qui, come uno scoiattolo incapace di nuotare tra le insenature della Senna. Forze avverse (su tutte, la difficile condizione economica) lo spinsero a fare ritorno, nel 1980, sul suolo italiano, al quale tuttavia sentiva di voler dare ancora una volta quella linfa vitale che, tuttavia, lui avrebbe definitivamente perduto poco dopo, lasciandoci nel 1985. 

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