Bitcoin e l’impatto ambientale del mining

Ancora nel 2022, il termine “blockchain” è perlopiù volgarmente associato alla crittovaluta bitcoin, la quale ne costituisce la prima – e più longeva (2009) – applicazione (“Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System”, Satoshi Nakamoto; “The Business Blockchain”, Certified Blockchain Experts, Edizioni Efesto, 2019, pag.5). Ciò ha purtroppo relegato, per diversi anni, una tecnologia dal potenziale molto più ampio al solo settore finanziario. L’interesse, tra l’altro, era praticamente monopolizzato dal mining, allora particolarmente remuneratizio (“Blockchain: The revolution that hasn’t quite happened”, Chris Baraniuk, BBC Business, 11 febbraio 2020). Pare che la capitalizzazione della Bitcoin, nel 2020-2021, aveva superato sia quella di Visa sia quella di MasterCard, le grandi protagoniste della precedente rivoluzione – quella che ha portato alla realizzazione e alla diffusione delle carte di credito e di debito. Il cambiamento è arrivato solo con Ethereum, una blockchain concettualmente diversa che, attraverso l’introduzione degli smart contracts, ha reso le cosiddette “decentralized applications” (“dApps”) possibili (“The Business Blockchain”, Certified Blockchain Experts, Edizioni Efesto, 2019, pag.7).

È possibile usare la Bitcoin senza comprenderne i dettagli tecnici. Una volta installato sul computer o sullo smartphone, il portafoglio Bitcoin – i.e. la user interface della client application che accede al protocollo Bitcoin – genera il primo indirizzo, il quale consiste in una stringa alfanumerica tipo 1DSrfJdB2AnWaFNgSbv3MZC2m74996JafV (essenzialmente, una versione encoded base58check del public key hash da 160-bit) (“Mastering Bitcoin: Programming the Open Blockchain”, Andreas Antonopoulos, O’Reilly, 2017, pag.XXIII e pag.6). È possibile crearne degli altri ogni volta che l’utente  ne ha necessità. Rivelando uno degli indirizzi, è possibile ricevere ed effettuare pagamenti. Il funzionamento è molto simile a quello delle e-mail, eccetto il fatto che un indirizzo Bitcoin andrebbe usato solo una volta. Tutte le transazioni confermate sono incluse nella blockchain. In questo modo, i portafogli Bitcoin possono calcolare il loro bilancio disponibile e nuove transazioni possono essere verificate, controllando che chi spende abbia sufficiente disponibilità.

Una transazione è un trasferimento di valori tra portafogli Bitcoin che viene incluso nella blockchain. I portafogli di Bitcoin contengono un insieme segreto di dati, chiamato “chiave privata” o “seme”. Esso viene utilizzato per firmare digitalmente le transazioni, fornendo una prova matematica sulla provenienza della transazione dal proprietario del portafoglio. La firma digitale impedisce che la transazione, una volta creata, venga alterata da chicchessia. Tutte le transazioni avvengono tra  utenti e in genere iniziano ad essere confermate dalla rete nei 10-20 minuti successivi, attraverso il  processo chiamato “mining” (“Mastering Bitcoin: Programming the Open Blockchain”, Andreas Antonopoulos, O’Reilly, 2017, pagg.15-30).

Il mining è la chiave dell’algoritmo di consenso della Bitcoin, la “Proof-of-Work” (PoW). Essa prevede che il blocco di transazioni sarà inserito nel ledger da parte del vincitore di una “gara”: essenzialmente, tutti i nodi (i cosiddetti “miners”) concorrono alla soluzione di un complesso problema matematico (al quale ci si riferisce come “puzzle”). I miners sono spinti a partecipare dal fatto che il vincitore avrà un premio: 12,5 bitcoins – ai quali, in realtà, va scalata la transaction fee (“Mastering Bitcoin: Programming the Open Blockchain”, Andreas Antonopoulos, O’Reilly, 2017, pagg.171-193 e pagg.213-267).

Un blocco della Bitcoin consiste nei seguenti metadata:

  • il riferimento al blocco precedente nella catena;
  • la proof-of-work (anche detta “nonce”);
  • il timestamp;
  • la Merkle tree root delle transazioni incluse.

L’albero di Merkle, anche noto come “binary hash tree”, è una struttura dati utilizzata, nei datasets più grandi, per lo storage degli hashes dei singoli dati, al fine di rendere la verifica del dataset più efficiente. È, essenzialemente, un meccanismo per contrastare le eventuali manomissioni. Ai fini della presente trattazione, non riteniamo necessario approfondire ulteriormente. Tuttavia, qualora d’interesse, il lettore/la lettrice può consultare il primo modulo del corso online gratuito “Blockchain Essentials”, fruibile a questo link.

Approfondiamo ora la questione del “mining”. Ricordiamo, anzitutto, che si tratta dell’attività che sfrutta enormi quantità di potere computazionale per risolvere complessi problemi matematici, permettendo così di certificare le transazioni della blockchain mediante la creazione di un nuovo blocco della blockchain in cambio di nuovi bitcoins o, nel caso di Ethereum, di “ether”. Bitcoin è dunque, essenzialmente, un protocollo peer-to-peer – per alcuni, non è poi concettualmente diverso da BitTorrent (e, in effetti, ha finito per godere un po’ della medesima fama) – che garantisce la sicurezza delle transazioni e, allo stesso tempo, premia alcuni computer che contribuiscono al sistema creando i bitcoins. All’inizio del 2018 esistevano un po’ meno di 17 milioni di bitcoins e ne venivano creati circa 100 ogni quaranta minuti, ovvero ogni dieci minuti si creava un valore di circa 720mila euro, stando al valore che la criptovaluta aveva allora. I bitcoins, tuttavia, non sono infiniti: ne possono essere creati al massimo 21 milioni. Pare che ci vorranno più di cento anni: più si va avanti e meno bitcoins possono essere “creati”. Più che essere creati, in realtà, essi vengono “estratti” (donde il termine “mining”). Tutti i computer che fanno parte del sistema possono provare a risolvere il problema crittografico e ad estrarre così il bitcoin in premio; tuttavia, già ad inizio 2018 potevano riuscirci solo computer con grandi capacità di calcolo: nella Repubblica Popolare Cinese, in Cechia, in Islanda, in Giappone, in Georgia, in Russia e dovunque l’energia costasse poco c’è stato un vero e proprio proliferare di “Bitcoin mining pools” (“Per fare i bitcoin serve tanta energia”, “Il Post”, 22 gennaio 2018). Pur essendo nati in Cechia (il primo si chiama “Slush”), oltre l’80% si trova nella RPC. Per avere ragionevoli possibilità di estrarre bitcoins servono quindi:

  • tanti computer,
  • impianti di ventilazione per evitare che i computer si surriscaldino,
  • tanta elettricità per far funzionare il tutto.

In passato s’impiegavano le “central processing units” (CPUs). Si è poi passati alle più performanti  GPUs (“graphic processing units”), agli FPGAs (“field programmable gate arrays”) e ad altri circuiti integrati specifici per il mining – che pure difficilmente trovano impiego per più di un anno o due: è stato stimato che Bitcoin porta a produrre 30.000 volte i rifiuti elettronici del sistema Visa (“Blockchain and the environment”, R.Filcak, R.Považan & V.Viaud, European Environment Agency, 28 ottobre 2020).

Il “New York Times” ha scritto, citando l’economista Alex de Vries e la società Morgan Stanley, che l’energia consumata per ottenere ogni bitcoin è pari a quella usata in due anni da una famiglia americana media. O, per vederla più in grande, il totale dei computer che fanno parte del sistema Bitcoin molti dei quali ci sono collegati con lo scopo primario di estrarre bitcoins consuma in un giorno la stessa energia di una nazione di media grandezza – la Svizzera, ad esempio (“There Is Nothing Virtual About Bitcoin’s Energy Appetite”, Nathaniel Popper, “The New York Times”, 21 gennaio 2018) . Già nel 2017, inoltre, Bitcoin consumava circa 20.000 volte più del sistema Visa ed è stato poi stimato che tale consumo energetico ammonta a circa lo 0,1-0,3% di quello mondiale (“Blockchain and the environment”, R.Filcak, R.Považan & V.Viaud, European Environment Agency, 28 ottobre 2020)… Si tratta, decisamente, di un’aberrazione.

Per la sensibilità ambientale, ci sembra doveroso informare il lettore/la lettrice che, ovviamente, non esiste solo il mining dei bitcoins: Ethereum, la seconda crittovaluta per volume d’affari, funziona allo stesso modo e così le tante altre cryptos che, seppur più piccole, fanno comunque la stessa cosa. Al gennaio 2021, entrambe le crittovalute già rientravano tra i cento assets maggiormente capitalizzati al mondo. Il giro d’affari totale di Bitcoin era, ad inizio 2018, di 200 miliardi di dollari; Ethereum era grande un po’ più della metà e, all’epoca, erano 34 le crittovalute con un giro d’affari superiore al miliardo di dollari. il problema non sta poi solo nell’estrazione, ma anche nelle operazioni che si fanno con queste cryptos: è stato stimato che ogni transazione di bitcoins – il lettore/la lettrice ricordi che a tutti i computer del sistema è chiesto di controllare, registrare e approvare l’operazione – consuma l’elettricità necessaria per fare 80.000 transazioni con carte Visa. Le stime sono state criticate ma è certo che, se non 80.000, si parla di almeno 10.000 transazioni… (“Per fare i bitcoin serve tanta energia”, “Il Post”, 22 gennaio 2018). Stando così le cose, il sistema non è sostenibile.

È interessante, a proposito di quello che per molti è il fallimento del progetto Bitcoin, riportare quanto dichiarato da Mike Hearn: “Doveva essere una nuova forma di valuta decentralizzata, priva di istituzioni di sistema e troppo grande per fallire. Ma è diventato qualcosa di ancora peggiore: un meccanismo completamente controllato da poche persone”. Qualcosa di simile inquieta anche la community di Ethereum, soprattutto quando si parla del passaggio da PoW a PoS (che pure ridurrebbe l’impatto ambientale del mining degli ether). Il fatto che il mining diventi appannaggio di pochi non preoccupa solo qualche appassionato, ma anche interi governi: la Repubblica Popolare Cinese, ad esempio, ha addirittura annunciato di volerlo mettere al bando (“Criptovalute, Cina pronta a mettere al bando il mining”, P.Sol., “Il Sole 24 Ore”, 9 aprile 2019).

Ci sarebbe molto altro da dire: Bitcoin ha entusiasmato e, al tempo stesso, ha diviso le opinioni come poche altre cose di cui sono a conoscenza. Il materiale online è, ovviamente, oceanico. Una simpatica sintesi dei principali dibattiti attorno a Bitcoin è stata fatta nel 2019 dagli youtubers EpicLloy e TimDeLaGhetto ed è fruibile cliccando qui. Altro video interessante è stato fatto da Drew Binsky, il quale ha sperimentato 48h in El Salvador – il Paese che, nel 2021, ha co-adottato il bitcoin – pagando tutto in crittovaluta. Personalmente, apprezzo che abbia lanciato il trend tecnologico della blockchain, ma mi preoccupa soprattutto la sua eco-mostruosità.

A dispetto del consumo energetico e dei troppi rifiuti elettronici della Bitcoin e delle altre crittovalute, la tecnologia blockchain è già – come ribadito dalla stessa “European Environment Agency” (EEA) – di grande interesse proprio nella protezione dell’ambiente. In particolare, è così possibile rendere più trasparenti gli attuali processi produttivi e di consumo, i quali, più di tutto, incidono sull’ambiente: un’applicazione promettente, in particolare, riguarda la gestione della catena di approvvigionamento di settori quali la silvicoltura, l’energia, l’alimentazione, l’estrazione mineraria… Pur esistendo già diversi standard e processi di certificazione, che garantiscono catene di approvvigionamento sostenibili e responsabili, essi risultano troppo spesso costosi e inaffidabili (“Blockchain and the environment”, R.Filcak, R.Považan & V.Viaud, European Environment Agency, 28 ottobre 2020). Le blockchains, però, possono rendere visibili, tracciabili e verificabili le informazioni sull’origine di un prodotto, sui processi e sulle parti coinvolte nelle transazioni e nella sua logistica: essendo infatti le informazioni protette e temporalmente contrassegnate, non sono alterabili né modificabili. Tutto ciò può fare significativamente la differenza nella scelta – così, per la prima volta, “pienamente consapevole” – dei prodotti e dei fornitori, nonché nella progettazione di reti logistiche e processi interne sempre più sostenibili.

La blockchain, insomma, può aiutare i consumatori a fare scelte che aiutano nella tutela dell’ambiente – o dei diritti umani e delle condizioni di lavoro – nella catena di approvvigionamento. Tali sperimentazioni sono attualmente in corso – e anche la nostra E-Charger/Ether Charge ne è prova. Ad esempio, il “Programme for the Endorsement of Forestry Certification” (PEFC) – il più grande sistema di certificazione forestale del mondo – ha sperimentato il suo interesse per la blockchain: in particolare, i ricercatori hanno anzitutto simulato la sua applicazione al tracciamento del legname attraverso il suo ciclo di vita; ciò si è ottenuto combinando un sistema di identificazione a radiofrequenza e un registro “blockchainizzato” che consente di conservarne i records in modo sicuro e decentralizzato (“PEFC Stakeholder Dialogue exploring SMART solutions in forest certification: Chain of Custody”, Programme for the Endorsement of Forestry Certification, 6 ottobre 2017).

Concludiamo con una citazione dall’EEA: “The issue remains whether these niche initiatives will scale up and whether their benefits are offset by blockchain’s own energy consumption”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here