Dopo l’assegnazione del Nobel per la Pace a María Corina Machado, Caràcas chiude la sua sede diplomatica a Oslo e rafforza i legami con il Sud globale. Un gesto simbolico che racconta l’isolamento crescente del regime
Il 13 ottobre 2025 la bandiera del Venezuela è stata ammainata davanti all’ambasciata di Frogner. Nessun annuncio, nessuna cerimonia: soltanto un secco comunicato del Ministero degli Esteri venezuelano in cui si parlava di una “profonda riorganizzazione delle rappresentanze diplomatiche all’estero”. Dietro la formula burocratica si nasconde in realtà un gesto carico di significati, ovviamente politici. Tre giorni prima, il Comitato Nobel norvegese aveva assegnato il Premio per la Pace a María Corina Machado, la voce più nota e perseguitata dell’opposizione venezuelana.
Chi è María Corina Machado
Ingegnera e leader politica venezuelana, classe 1967, nata a Caràcas, la Machado è una delle figure più note e determinate dell’opposizione al regime chavista, punto di riferimento morale e politico per milioni di cittadini, simbolo di una resistenza civile che non ha rinunciato alla speranza di un cambiamento pacifico.
Cofondatrice dell’organizzazione civica Súmate, che nel 2004 organizzò il referendum contro Hugo Chávez, divenne successivamente deputata all’Assemblea Nazionale nel 2010, distinguendosi per il suo stile diretto e intransigente. Nel 2014 fu espulsa dal Parlamento e privata dell’immunità parlamentare, accusata di “tradimento della patria” per aver denunciato le violazioni dei diritti umani davanti all’OEA. Da allora ha subìto persecuzioni, divieti di espatrio e continue minacce. È inoltre la fondatrice e leader del movimento Vente Venezuela, di formazione liberale e democratica, che propone un modello di economia aperta e Stato di diritto, in contrapposizione all’autoritarismo bolivariano. Machado rappresenta l’ala più ferma dell’opposizione, contraria a qualsiasi compromesso con Nicolás Maduro Moros. Nel 2023 vinse con largo margine le primarie unitarie dell’opposizione per le elezioni presidenziali del 2024, ma fu squalificata dal regime, che le impedì di candidarsi.
Il 10 ottobre scorso ha 2025 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace (lo stesso auspicato da Donald Trump) come annunciato dal Comitato Nobel norvegese, con la motivazione di aver incarnato “la resistenza civile e il diritto alla democrazia in un contesto di autoritarismo”. Al momento, la Machado vive sotto sorveglianza in Venezuela. Questo perché il governo di Nicolás Maduro la considera una minaccia politica diretta.
Dopo aver vinto le primarie dell’opposizione nel 2023 infatti, è stata squalificata dalle elezioni e accusata di sostenere sanzioni straniere contro il Venezuela. Da allora vive in una condizione di controllo costante: non può lasciare il Paese, i suoi spostamenti sono limitati e i servizi di sicurezza la monitorano di continuo. Non è formalmente agli arresti domiciliari, ma di fatto si trova in una reclusione informale, usata dal regime per isolarla senza ricorrere a un arresto che avrebbe un costo politico e mediatico elevato.
La chiusura della sede diplomatica venezuelana: contesto ed analisi
Tornando alla chiusura dell’ambasciata a Oslo, il fatto è stato letto dagli osservatori internazionali come un segnale politico deliberato, una risposta indiretta ma eloquente di Caràcas a quello che il governo di Nicolás Maduro considera un affronto simbolico: la consacrazione, da parte di un’istituzione norvegese, della sua principale oppositrice. La coincidenza è infatti troppo precisa per essere casuale. Il regime ha scelto di reagire non con un comunicato polemico, ma con un gesto silenzioso. Una porta che si chiude può dire molto più di mille dichiarazioni. La diplomazia, anche se giocata duramente, sa essere sottile.
Secondo il ministero degli Esteri norvegese, Caràcas non ha fornito alcuna motivazione specifica oltre la generica “ristrutturazione”. Oslo ha espresso “rammarico” per la decisione, ribadendo tuttavia la disponibilità a mantenere il dialogo “in altre forme”. È un linguaggio diplomatico misurato, ma che nel contesto suona come un rimprovero. In diplomazia, il rammarico è una parola pesante: un modo per dire che il gesto non passa inosservato.
Contestualmente, il Venezuela ha annunciato la chiusura della sua ambasciata in Australia e l’apertura di nuove sedi in Burkina Faso e Zimbabwe. Questa mappa diplomatica, apparentemente secondaria, delinea in realtà un orientamento preciso: l’abbandono progressivo delle relazioni con l’Occidente e il rafforzamento dei legami con i Paesi del cosiddetto “Sud globale”, spesso governati da regimi autoritari o da alleanze anti-occidentali. È una diplomazia che non cerca consenso, ma appartenenza ideologica. Maduro la definisce una “politica di sovranità multipolare”, ma nei fatti appare come una strategia di sopravvivenza. Dopo dodici anni di potere, segnati da iperinflazione, crisi umanitaria, sanzioni e un esodo di oltre sette milioni di cittadini, il suo regime è sempre più isolato. La chiusura di ambasciate in Paesi democratici come la Norvegia o l’Australia è un modo per consolidare un cerchio di alleati che non mettono in discussione la legittimità del potere venezuelano. Caràcas parla oggi con Pechino, Mosca, Teheran e Pretoria; cerca ascolto nel gruppo dei Paesi che contestano l’egemonia occidentale. È una geografia della resistenza, costruita su un linguaggio ideologico che mescola anti-imperialismo, sovranità e orgoglio postcoloniale. Ma in questo caso la “ristrutturazione” diplomatica è soprattutto un gesto difensivo. Chiudendo l’ambasciata a Oslo, Maduro ha voluto tagliare il ponte con un Paese che negli ultimi anni aveva avuto un ruolo chiave nei tentativi di mediazione tra governo e opposizione. La Norvegia, infatti, è stata la sede dei colloqui riservati che, tra il 2019 e il 2022, hanno cercato di aprire un canale di dialogo tra le due parti. Con l’assegnazione del Nobel a Machado, quella neutralità si è incrinata agli occhi di Caracas.
Il regime, attaccando direttamente il Comitato Nobel — un’istituzione indipendente dal governo norvegese — ha di fatto rilevato la propria insicurezza. Ha scelto però la via simbolica: chiudere la porta, ammainare la bandiera ed andare via. È la versione moderna di quella che alcuni diplomatici definiscono la “diplomazia del rancore”: colpire il simbolo invece dell’interlocutore, recidere il legame invece di affrontarlo.
Fatti e conseguenze
Il premio a María Corina Machado ha riacceso i riflettori internazionali sul dramma politico venezuelano. Per il governo Maduro, questa visibilità internazionale è una minaccia politica e narrativa. In un Paese dove l’informazione è controllata e la repressione è quotidiana, il riconoscimento mondiale di un’esponente dell’opposizione è un atto di delegittimazione. Tuttavia, reagire apertamente avrebbe significato amplificarne l’impatto. Ecco perché la chiusura dell’ambasciata norvegese appare come un gesto di equilibrio: abbastanza duro da marcare distanza, ma abbastanza silenzioso da non alimentare lo scandalo.
La decisione ha però conseguenze concrete. Per la comunità venezuelana residente nei Paesi nordici — diverse migliaia di persone — la chiusura comporta la perdita di un riferimento consolare essenziale. Molti dovranno rivolgersi alle sedi di Stoccolma o Madrid per rinnovare documenti o certificati. È il prezzo umano di una scelta politica che si traveste da “ristrutturazione”.
Dal punto di vista internazionale, l’episodio segna un passo ulteriore nella strategia di “isolamento controllato” che Caràcas porta avanti da tempo. Dopo anni di tentativi falliti di mediazione, il governo Maduro sembra aver rinunciato all’idea di reintegrarsi nei circuiti diplomatici occidentali. Ogni rottura viene trasformata in un atto di resistenza. In questo senso, la chiusura dell’ambasciata a Oslo è coerente con la narrativa che il regime costruisce da anni: quella di un Paese assediato, costretto a difendere la propria sovranità contro l’ingerenza esterna. Eppure, dietro questa retorica, si percepisce una profonda fragilità. La diplomazia del silenzio è una diplomazia dell’autodifesa, non della forza. Riduce gli spazi di interlocuzione e priva il Venezuela di canali preziosi, proprio nei momenti in cui il dialogo sarebbe più necessario.
La reazione della Norvegia
La Norvegia, fedele alla sua tradizione di mediazione, ha reagito con misura, ricordando che il Comitato Nobel agisce in piena indipendenza dal governo. Ma il danno simbolico resta. La chiusura di una delle prime ambasciate aperte in Europa dopo la rivoluzione bolivariana è anche la fine di una stagione: quella in cui il Venezuela, pur nel suo radicalismo, cercava di dialogare con il mondo.
Oggi Maduro preferisce scegliere i propri interlocutori. Non più Paesi che lo criticano, ma governi che lo comprendono, o almeno che non lo giudicano. È una scelta che riflette l’isolamento progressivo di un regime stanco, costretto a reinventare la propria ideologia per giustificare la propria permanenza al potere. Si riflettono due visioni opposte del potere oggi in Venezuela: da un lato, quella del governo attuale, che teme il linguaggio universale dei diritti; dall’altro, quella di una donna che ha trasformato la persecuzione in testimonianza e il coraggio in atto politico.
Il Nobel a María Corina Machado è un faro acceso sulla crisi democratica del Venezuela. La chiusura dell’ambasciata a Oslo è, invece, un interruttore spento sull’apertura al dialogo di un regime ormai obsoleto, che tenta la via dell’isolazionismo per tutelarsi.







