Coronavirus: nuova primavera climatica o canto del cigno della Natura?

“Così l’emergenza coronavirus ha fatto crollare lo smog nelle nostre città”(La stampa, 17 marzo 2020), “Il coronavirus ha ridotto l’inquinamento”(Il Post, 17 marzo 2020), due dei tanti titoli che tuonano ottimistici la riduzione dell’emissione di Co2. Innegabilmente, infatti, le misure di contenimento adottate dalla Cina hanno ridotto l’emissione di anidride carbonica del 25% rispetto allo stesso periodo del 2019. Sui social siamo bombardati dalle foto di delfini che nuotano nei porti vuoti e silenziosi, di una Venezia deserta che mostra canali limpidi e popolati da pesci, di tartarughe che nidificano sulle coste indiane. Immagini confortanti che gettano un’aura di positività in questo periodo d’incertezze. La Natura si riappropria dei suoi spazi, palesando il nostro essere ospiti transeunti su questo pianeta. Eppure, sorge spontaneo chiedersi quanto questo sia effimero o meglio, se una pandemia può effettivamente essere argine all’ annoso problema dell’inquinamento. Quale saranno le previsioni sul lungo periodo di una riduzione del PIL mondiale che oscilla tra lo 0, 2% ed il 0, 4% in un mondo dove, dagli accordi di Parigi, i Paesi del G20 hanno registrato un aumento delle emissioni dell’1.8 % soltanto tra il 2018 ed il 2019?

L’analisi dell’andamento delle emissioni di Co2 nell’ultimo secolo mostra la stretta correlazione tra crisi economica ed inquinamento. Come sottolineato sul The Conservation da Glen Peters del Center for International Climate and Environment Research, la riduzione delle emissioni concomitante alle battute d’arresto dell’economia mondiale è successivamente accompagnata da un loro massivo aumento, coadiuvato da scelte politiche che prediligono i sistemi produttivi tradizionali, diminuendo i capitali stanziati a favore delle energie rinnovabili, per la maggior parte economicamente dipendenti da fondi statali.

L’abbattimento dell’emissioni conseguente alle crisi del 2008 portava “La Repubblica” a titolare ottimista “Se la crisi fa bene all’ambiente Crollano le emissioni di C02” (19 febbraio 2009). Eppure, soltanto due anni dopo, nel 2011, con 34 miliardi di tonnellate di CO2, viene segnato un nuovo record di emissioni, con un aumento, negli anni 2009- 2011, del 5.8%. Il rapporto di proporzionalità diretta tra ripresa economica ed emissioni si verifica costantemente, basti pensare ai periodi conseguenti le crisi petrolifere del 1973 e del 1979, la dissoluzione dell’Unione sovietica nel 1991 o le crisi finanziarie del 1997 e, come visto, del 2008.

Ora più che mai è necessario il superamento dell’accordo di Parigi, obsoleto ed utopistico e la conseguente stesura di piano unitario di contenimento dell’inquinamento atmosferico con l’adesione delle potenze economiche egemoni. Pleonastico far riferimento ai costi umani che l’inadempienza comporterebbe (l’inquinamento miete 50.000 vittime annue) ed eccessivamente ottimistico ritenere che questo dato venga tenuto in considerazione in sede di trattativa, ma è altresì evidente come i costi di mercato dell’inquinamento atmosferico siano enormi, comportando una ridotta produttività del lavoro, spese supplementari per la salute e perdite nelle colture e nelle foreste. L’OCSE prevede che tali costi raggiungano circa il 2% del PIL europeo nel 2060 (OCSE, 2016), determinando una riduzione dell’accumulazione di capitale e un rallentamento della crescita economica, prospettiva, per alcuni, ben più catastrofica.

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