Venerdì 16 maggio, Salone internazionale del Libro di Torino. Un auditorium colmo di fan accoglie con un lungo applauso Emmanuel Carrère, uno dei più importanti autori contemporanei, accompagnato da Roberto Colajanni, direttore editoriale di Adelphi, Matteo Codignola, curatore della nuova edizione di Portnoy, e Livia Manera Sambuy, giornalista, scrittrice e grande conoscitrice di Philip Roth.
L’occasione è, appunto, l’uscita di Portnoy, primo titolo (dal nuovo nome) della riedizione dell’intero catalogo dell’autore americano da parte di Adelphi.
Lamento di Portnoy (titolo italiano fino a oggi), con Adelphi alla terza riedizione, è uno dei più importanti romanzi dell’era moderna, uscito per la prima volta nel 1969. Il libro, oltre a essere trasgressivo, ha rotto una diga della storia letteraria rendendo possibile scrivere di alcuni temi prima taboo, tramite l’espediente della seduta psicanalitica, che ha permesso all’autore di esprimersi senza filtri. È un libro che è stato amato e odiato, ma indubbiamente ha fatto epoca. Accusato di antisemitismo, Roth comunque ha perseguito sulla sua via, arrivando a essere identificato con il proprio personaggio. Se Portnoy sia o meno un alter ego dell’autore, e se questi l’abbia veramente voluto, resta ancora oggi un mistero, che lui non si è mai premurato di sciogliere definitivamente.
“Nell’epoca del #metoo e della cancel culture, tuttavia” dice Livia Manera Sambuy rivolgendosi al direttore editoriale e amministratore delegato di Adelphi Roberto Colajanni, “ripubblicare Roth è una scelta coraggiosa”.
“Questo è senza dubbio un libro che ci coinvolge tutti, anche se per motivi diversi, e nonostante abbia ormai quasi sessant’anni. La cosa curiosa è che Adelphi, negli anni Novanta, aveva costruito il mito di Joseph Roth proprio in opposizione all’americano Philip, come ha sempre evidenziato Roberto Calasso. La decisione di rieditare Philip Roth è stata quasi casuale: in poche settimane, tutti in redazione lo abbiamo riletto nella sua interezza, per vedere se ancora poteva dirci qualcosa. La riscoperta è stata strepitosa, e ognuno ha apprezzato degli aspetti diversi. Inoltre, possiamo dire che la sua immagine di provocatore e scrittore dello scandalo è ormai invecchiata, ma la genialità dirompente della sua opera continua a parlarci tutt’oggi di qualcosa di nuovo e multiforme”.
A questo punto, la parola passa a Carrère, che aiutato dall’interprete dice la sua sull’operazione Adelphi. “Tutto è nato da una cena con Roberto Colajanni, quella è stata l’occasione anche per me di rileggere tutto Roth. Lessi Portnoy anni fa, da giovane, e lo trovai abbastanza scandaloso, seppur fosse passato del tempo. Quando uscì l’opera, Philip Roth era già uno scrittore abbastanza stimato, ma il nuovo libro cambiò tutto, trasformandolo in un bersaglio, amato dalle donne e da molti tacciato di antisemitismo. La carica trasgressiva, secondo me, è rimasta intatta, e ci si chiederà sempre se i suoi personaggi (oltre a Portnoy anche Zuckerman, forse il più famoso) siano veramente degli alter ego. Anche la forma dell’opera è particolare: non è proprio un monologo, ha degli elementi da stand up comedy ma è al contempo una seduta psicanalitica, anche se la voce dell’analista non si sente mai. Portnoy prende la cosa molto seriamente, non si censura mai, dà tutto sé stesso e questo permette anche di ridere di ciò che dice, nonostante lui rimanga sempre serio. Si sa che Freud ha teorizzato tre istanze, Io, Es e Super-io, e l’Es rappresenta i desideri profondi e l’inconscio. Ecco, l’Es di Roth è fuori controllo, e in lui vi è una lotta costante tra gli istinti e la volontà di dare forma alle cose”.
Si passa poi alla questione titolo, tanto dibattuta e indagata dal mondo editoriale italiano, che si è chiesto da subito il motivo di un’operazione così dirompente. A rispondere è Matteo Codignola, curatore e traduttore del libro rothiano. “Innanzitutto, concordo con Emmanuel sul fatto che al testo non si possa trovare un genere definito, è come se fosse una performance; nella stand up comedy, come nell’analisi, cadono le categorie di vero e falso. Per quanto riguarda la riedizione del catalogo, è imprescindibile il lavoro editoriale, altrimenti l’opera poteva restare al vecchio editore; dunque, uno dei primi segnali che potevamo dare era proprio cambiare il titolo. Fu proprio Roth a dire che non era soddisfatto del termine ‘lamento’, in quanto sinonimo di ‘lagna’, qualcosa di negativo. Lui poi seguiva proprio una religione della parola, quindi sulla terminologia andava sicuramente preso sul serio. Il nuovo titolo è dunque in armonia con tutto il resto degli interventi. È raro trovare un titolo con il nome del personaggio principale, e quando ciò succede, per il lettore c’è una identificazione fortissima con la storia; è una porta d’accesso immediata (motivo per cui togliemmo un lungo sottotitolo da Zia Mame, divenuto poi iconico)”.
“Avere a che fare con Philip Roth era complesso” si aggiunge Livia Manera Sambuy, che con l’autore americano ha stretto negli anni un’insolita amicizia, a partire da un’intervista per l’uscita de La macchia umana. “Lui creava muri per difendersi, dal mondo esterno ma anche da sé stesso. È stato comunque definito uno scrittore di autofiction. Che ne pensi, Emmanuel Carrère?”.
“Anche io spesso sono stato identificato come scrittore di autofiction, per quanto sia reticente verso questo termine. Per Roth, però, secondo me è una definizione giustificata. Lui aveva una certa ambivalenza verso Portnoy, che è un libro senza ritorno: ti può portare critiche, ma ti dà una libertà che dura per sempre”.