Gaza, piano Trump: l’accordo fantasma che nasconde un diktat

Mercoledì 9 ottobre, notte. Donald Trump annuncia che Israele e Hamas hanno firmato “l’accordo di pace”. I titoli esplodono, le Borse reagiscono, i familiari degli ostaggi piangono di sollievo. Ma dietro il blitz mediatico si nasconde una verità più stretta: quello che è stato firmato è solo la prima fase di un piano che, nei suoi venti punti completi, assomiglia più a un diktat coloniale che a una roadmap verso la pace. E il popolo palestinese? Non pervenuto.

Il blitz mediatico: cosa è stato davvero firmato (e cosa no)

Mercoledì 9 ottobre, Trump annuncia su Truth Social che Israele e Hamas hanno firmato l’accordo sulla prima fase del suo piano di pace per Gaza, presentato appena dieci giorni prima, il 29 settembre. La firma arriva dopo giorni di negoziati indiretti mediati da Egitto, Qatar, Stati Uniti e Turchia. Secondo quanto riportato da Il Post, Trump ha scritto sul suo social Truth che «tutti gli ostaggi saranno liberati molto presto, mentre Israele ritirerà le sue truppe dietro una linea concordata». Benjamin Netanyahu conferma su X, Hamas rilascia un comunicato: tutti ringraziano Trump.

Ma qui inizia il primo cortocircuito narrativo: secondo fonti riportate da Abc News e riprese da Sky TG24, l’accordo firmato «riguarda solo i primi passi di un quadro di pace a Gaza sostenuto dagli Stati Uniti ma non la totalità del piano radicale in 20 punti». In altre parole, quello che viene venduto come “accordo di pace storico” è, al momento, soltanto una tregua parziale con scambio di ostaggi. I 20 punti restano una cornice, non un’intesa vincolante.

La distinzione è fondamentale: una cosa è firmare una tregua temporanea, altra cosa è siglare un accordo di pace definitivo. Qui siamo nel primo caso, ma la comunicazione globale sta vendendo il secondo. È la strategia del “fatto compiuto narrativo”: annunci la pace, e poi gestisci le eccezioni come dettagli tecnici.

Che cosa è stato davvero firmato: la prima fase in dettaglio

Secondo quanto ricostruito da Internazionale, la prima fase prevede:

  • Cessate il fuoco immediato scattato venerdì 11 ottobre, 24 ore dopo l’approvazione del gabinetto di sicurezza israeliano
  • Scambio ostaggi-prigionieri entro 72 ore dalla firma: Hamas libererà in una sola volta i venti ostaggi israeliani ancora vivi (su oltre quaranta ancora a Gaza), in cambio di circa duemila prigionieri palestinesi: 250 ergastolani e 1.700 arrestati dopo il 7 ottobre 2023
  • Aiuti umanitari: almeno 400 camion al giorno entreranno a Gaza nei primi cinque giorni, con aumento progressivo nei giorni successivi
  • Ritiro parziale dell’esercito israeliano: le IDF si ritireranno da alcune aree, ma secondo Bedrosian continueranno a controllare circa il 53% della Striscia

Tra i 2000 prigionieri palestinesi da liberare potrebbe esserci Marwan Barghouti, leader di Al Fatah e possibile successore di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), detenuto da Israele dal 2002 dopo essere stato condannato all’ergastolo per il suo ruolo in alcuni attentati. La sua presenza nell’elenco Hamas, riportata da una testata giornalistica vicina allo stato egiziano (fonte: Internazionale), è significativa: Barghouti è una figura politica di peso, capace di riunificare le fazioni palestinesi. La sua eventuale liberazione potrebbe essere letta come concessione strategica da parte di Israele – o come mossa per destabilizzare l’Autorità Palestinese, a seconda di chi interpreta.

Fin qui, carta e cronaca. Ora inizia la decostruzione.

L’elefante nella stanza: dove sono i palestinesi nei 20 punti?

Il testo completo del piano Trump, pubblicato dalla Casa Bianca e riportato integralmente da Terrasanta.net, si articola in venti punti. Vale la pena soffermarsi su ciò che c’è – e soprattutto su ciò che manca.

I punti fondamentali dichiarati:

  1. Gaza sarà «deradicalizzata, libera dal terrorismo» (punto 1)
  2. Ricostruzione a beneficio della popolazione (punto 2)
  3. Tutti gli ostaggi restituiti entro 72 ore dall’accettazione (punto 4)
  4. Amnistia per i membri di Hamas che consegneranno le armi; passaggio sicuro all’estero per chi vorrà lasciare Gaza (punto 6)
  5. Governance transitoria: un comitato tecnocratico palestinese sotto la supervisione del Board of Peace, presieduto da Trump, con membri tra cui l’ex premier britannico Tony Blair (punto 9)
  6. Piano economico di sviluppo elaborato da un gruppo di esperti per trasformare Gaza in una delle «moderne “città miracolo” fiorenti in Medio Oriente» (punto 10)
  7. Zona economica speciale con tariffe preferenziali (punto 11)
  8. Smilitarizzazione totale di Hamas: distruzione di tunnel, infrastrutture militari, consegna delle armi sotto supervisione internazionale (punto 13)
  9. Forza internazionale di stabilizzazione (ISF) a guida USA con partner arabi per addestrare forze di polizia palestinesi (punto 15)
  10. Israele non occuperà né annetterà Gaza, ma manterrà «una presenza di sicurezza perimetrale» fino a quando Gaza non sarà «adeguatamente protetta da qualsiasi minaccia terroristica» (punto 16)
  11. Possibilità di «un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese» solo «mentre la ricostruzione avanza e il programma di riforma dell’Autorità Palestinese viene applicato con serietà» (punto 19)

Ciò che manca, urlando:

  • L’Autorità Palestinese viene citata solo marginalmente, come soggetto da “riformare” prima di poter riprendere il controllo. Non è parte negoziale, non è protagonista, è un comprimario da “certificare” come affidabile.
  • Il popolo palestinese non compare mai come soggetto politico. Si parla di “popolazione”, “abitanti”, “palestinesi qualificati”, ma mai di diritti politici immediati, rappresentanza, autodeterminazione concreta.
  • La parola “stato palestinese” appare solo al punto 19, condizionata a una serie di “se”: riforma dell’AP, ricostruzione avanzata, “serietà” da dimostrare. È l’orizzonte più lontano, nebuloso, revocabile.
  • Il giacimento di gas naturale al largo di Gaza – 37 km dalla costa, già oggetto di interesse da parte di compagnie statunitensi, israeliane e arabe – non viene mai menzionato.

Il piano parla di Gaza come di un terreno da “riqualificare”, da “deradicalizzare”, da trasformare in “città miracolo”. Ma non parla mai dei palestinesi come di un popolo con diritti politici immediati. Sono oggetti della ricostruzione, non soggetti della pace.

Le incongruenze operative: timeline impossibili e ritiri fantasma

Il punto 4 del piano stabilisce che «entro 72 ore dall’accettazione pubblica dell’accordo da parte di Israele, tutti gli ostaggi, vivi e deceduti, saranno restituiti». Ma Israele ha firmato l’accordo il 9 ottobre, il gabinetto di sicurezza ha approvato giovedì 10 ottobre, il governo ha ratificato venerdì 11 ottobre. Trump ha dichiarato di pensare che «tutti gli ostaggi saranno di ritorno lunedì». Lunedì 13 ottobre. Quattro giorni dalla firma, non tre. La timeline è già sforata prima di iniziare.

Altro nodo: il ritiro israeliano. Il punto 3 parla di «ritiro fino alla linea concordata» e di «sospensione di tutte le operazioni militari». Il punto 16 specifica che le IDF si ritireranno «progressivamente», ma manterranno «una presenza di sicurezza perimetrale» fino a quando Gaza non sarà «adeguatamente protetta». Quanto tempo? Chi decide quando Gaza è “adeguatamente protetta”? Secondo la portavoce di Netanyahu, nella prima fase Israele continuerà a controllare il 53% della Striscia. Dunque, non è un ritiro: è un riposizionamento tattico.

Hamas, dal canto suo, nel suo comunicato parla di «ritiri programmati» e invita Trump «a non permettere che Israele si sottragga alla sua applicazione». Tradotto: Hamas non si fida. E ha ragione a non farlo, perché Netanyahu non ha mai parlato di “fine della guerra” nei suoi interventi pubblici post-accordo. Ha parlato solo di liberazione degli ostaggi.

Le parole contano. Quando una parte dice “fine della guerra” e l’altra dice “liberazione degli ostaggi”, non stanno parlando della stessa cosa. E quando il ritiro è “progressivo” ma condizionato a una clausola elastica come “adeguata protezione”, il ritiro può durare anni. O decenni.

Il silenzio assordante di Netanyahu: cosa gli è stato garantito?

«Non è credibile», scrive l’analista del Fatto Quotidiano. «È l’unico che non ha fatto dichiarazioni per celebrare la “giornata storica”, da tutti osannata in fretta e imprudentemente. Perché tace? Non sono segnali positivi. Cosa gli è stato garantito che nessuno conosce?».

Fino al 28 settembre, il mantra del governo israeliano era «non ci sarà mai un popolo palestinese». Il 29 settembre Trump presenta il piano. Il 9 ottobre Israele firma. Cosa è cambiato? Secondo l’analista, nulla – o meglio, qualcosa che non è stato reso pubblico. Netanyahu ha accettato di ritirare parzialmente le truppe, di liberare 2000 prigionieri (250 ergastolani, tra cui forse Marwan Barghouti), di permettere l’ingresso massiccio di aiuti. Tutto questo in cambio di cosa?

Ipotesi ricostruttive (non confermate, ma deducibili dal contesto):

  1. Garanzia che Hamas sarà smilitarizzato e marginalizzato definitivamente, con una forza internazionale che di fatto sosterrà la sicurezza israeliana lungo i confini (punto 15).
  2. Controllo perimetrale permanente, mascherato dalla formula «fino a quando Gaza sarà adeguatamente protetta» (punto 16): una clausola elastica che può durare anni.
  3. Accesso privilegiato alle risorse economiche della ricostruzione per aziende israeliane o alleate, tramite il meccanismo delle “zone economiche speciali” (punto 11).
  4. Esclusione dell’Autorità Palestinese dal governo immediato di Gaza, sostituita da un comitato tecnocratico sotto supervisione USA (punto 9): questo impedisce la riunificazione Cisgiordania-Gaza sotto un’unica autorità palestinese.

Il silenzio di Netanyahu non è distrazione: è strategia. Mentre il mondo celebra la “pace”, lui conta i dividendi. E i dividendi, in questo caso, si chiamano controllo territoriale, marginalizzazione politica dell’avversario, e mano libera sulla ricostruzione.

La seconda fase: il grande assente

Il punto cruciale è che dell’accordo firmato il 9 ottobre fa parte solo la prima fase. Secondo Hamas, i negoziati per la seconda fase «cominceranno immediatamente». Israele non si è pronunciato. E qui sta il cuore del problema: tutti i punti più controversi del piano – smilitarizzazione totale di Hamas, governance definitiva, ruolo dell’Autorità Palestinese, autodeterminazione, controllo delle risorse – sono rinviati a una fase due di cui non si conoscono né tempi né modalità.

La fase uno è tregua. La fase due è governance. La fase tre è autodeterminazione. Ma se la fase due non parte mai, la fase tre resta fantascienza. E se Israele controlla ancora il 53% del territorio, chi ha davvero il potere negoziale per imporre la fase successiva? Non certo Hamas, disarmato e sotto supervisione internazionale. Non certo l’Autorità Palestinese, esclusa dal tavolo. Non certo i palestinesi, ridotti a “popolazione da riqualificare”.

Il piano che non è un piano

L’accordo firmato il 9 ottobre è reale. Il cessate il fuoco è operativo. Gli ostaggi stanno tornando a casa. Ma chiamarlo “accordo di pace” è un’operazione di marketing geopolitico. È una tregua condizionata, una prima fase che non garantisce nulla sulla seconda, un diktat mascherato da negoziato.

Il piano Trump completo, nei suoi venti punti, promette “città miracolo” ma non dice chi ci vivrà. Promette “autodeterminazione” ma solo dopo riforme indefinite. Promette “ricostruzione” ma con attori economici opachi ai comandi. E soprattutto, non nomina mai il popolo palestinese come soggetto politico.

Israele controlla ancora il 53% della Striscia. Hamas è costretto a consegnare le armi ma non ha garanzie sul futuro. L’Autorità Palestinese è marginalizzata. Netanyahu tace. E i venti punti restano carta, in attesa di diventare realtà – o pretesto.

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