Mentre Israele blocca la Flotilla, la leadership del movimento islamista prende tempo sul piano di pace americano-israeliano
La Global Sudmud Flotilla è stata quasi completamente fermata dalla marina israeliana. L’operazione, cominciata nella prima serata del primo ottobre e durata quasi una ventina di ore, ha coinvolto oltre 40 imbarcazioni che trasportavano circa 400 persone tra cui attivisti, parlamentari europei e personale umanitario, intenzionati a rompere simbolicamente il blocco navale imposto da Israele e creare un corridoio umanitario che consentisse la distribuzione di viveri e farmaci alla popolazione di Gaza, ormai allo stremo. Le autorità israeliane hanno intercettato la maggior parte delle navi in acque internazionali, deviandole verso il porto di Ashdod. Tuttavia, almeno una nave — la Marinette — è riuscita temporaneamente a eludere l’intercettazione e a rimanere operativa in mare per diverse ore. Un’altra, la Mikeno, sarebbe entrata brevemente nelle acque territoriali di Gaza prima che se ne perdesse il segnale. Anche la nave Morgana, inizialmente non localizzata tra quelle fermate, sarebbe stata successivamente raggiunta. Il bilancio finale dell’operazione resta in via di consolidamento, ma gli organizzatori della flottiglia sottolineano come, nonostante l’arresto massiccio dei partecipanti, successivo all’abbordaggio avvenuto il 1 ottobre, il tentativo di rompere il blocco abbia dimostrato una frattura crescente tra le logiche di sicurezza imposte da Israele e le pressioni internazionali per l’accesso diretto agli aiuti umanitari.
Le autorità israeliane hanno difeso l’intervento come misura necessaria a impedire l’accesso non autorizzato a una zona di guerra attiva. Secondo Tel Aviv, qualsiasi aiuto diretto a Gaza deve passare per i canali ufficiali e controllati, per evitare il rischio che materiali sensibili o personale politicamente motivato possano alimentare ulteriormente il conflitto. I passeggeri della Flotilla sono stati condotti in centri di identificazione, dove molti degli attivisti sono stati trattenuti. Privati dei telefoni cellulari, che sono stati gettati in mare prima dell’arresto, e dei documenti, trattenuti dalle autorità portuali israeliane, gli attivisti stranieri saranno ora assistiti dai rispettivi consolati per definire le modalità del rientro. Il governo israeliano ha annunciato che i rimpatri avverranno tra il 6 e il 7 ottobre tramite voli charter.
La risposta internazionale non si è fatta attendere. Manifestazioni di protesta si sono moltiplicate in diverse capitali europee e del Medio Oriente, così come in America Latina, dove il tema della libertà di accesso agli aiuti umanitari ha riacceso il dibattito sulla legittimità del blocco israeliano. In Italia, le proteste sono culminate in uno sciopero generale proclamato da sindacati di base e movimenti studenteschi di oggi, 3 ottobre, che ha bloccato treni e mezzi pubblici. Il governo ha risposto con una linea prudente: da un lato ha garantito assistenza consolare agli italiani coinvolti nella flottiglia, dall’altro ha ribadito il diritto di Israele a difendersi, pur criticando alcune modalità operative dell’intervento.
Il piano di Trump-Netanyahu e la risposta (mancata) di Hàmas
Sulla risoluzione del conflitto a Gaza, l’attenzione resta concentrata sull’attesa risposta di Hàmas al piano in venti punti presentato congiuntamente il 30 settembre da Donald Trump e Benjamin Netanyahu. La proposta, che prevede il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti da Hàmas con relativo scambio di prigionieri palestinesi oltre che il ritiro graduale delle forze israeliane e lo smantellamento delle infrastrutture militari del movimento, è in attesa dell’avallo da parte dei leader palestinesi, che hanno accolto la proposta con prudenza oltre che con una certa ambiguità. In dichiarazioni ufficiali, i leader del movimento hanno affermato di non aver ancora ricevuto il testo integrale del piano e di voler valutare attentamente ogni aspetto prima di prendere una posizione definitiva. Fonti vicine al gruppo indicano che sono in corso intense consultazioni interne e con i mediatori regionali, in particolare Egitto, Qatar e Turchia, che avrebbero suggerito modifiche su almeno tre punti cruciali: il disarmo, il ruolo del comitato internazionale e la transizione post-bellica. Proprio quest’ultimo punto suscita dubbi – in realtà non solo in Hàmas, ma anche in alcuni attori internazionali, tra cui diversi Stati membri dell’Unione Europea: il piano prevede infatti l’istituzione di un governo tecnico sotto la supervisione di un comitato internazionale, con un mandato limitato nel tempo e nel raggio d’azione. Il piano non contempla dunque la creazione immediata di uno Stato palestinese, ma si propone come tappa intermedia verso una “pace controllata” (ne abbiamo parlato qui: Gaza e la pace condizionata: il fragile equilibrio del piano Trump-Netanyahu tra mediazioni e veti incrociati- articolo 30 settembre).
Ma mentre si attende una risposta concreta da parte dei leader palestinesi, al vertice militare del movimento continua a prevalere una linea di resistenza, considerando inaccettabile qualsiasi intesa che implichi la consegna delle armi, la rinuncia al diritto di autodifesa o la marginalizzazione politica del gruppo.
Nel frattempo, i bombardamenti israeliani su Gaza sono proseguiti senza sosta. Nelle ultime quarantotto ore si sono registrate decine di morti, tra cui civili colpiti in aree residenziali e strutture sanitarie già danneggiate. L’accesso agli aiuti umanitari rimane estremamente limitato, e la situazione sanitaria è prossima al collasso. Le organizzazioni internazionali denunciano un aggravamento delle condizioni di vita, mentre cresce la pressione sulle cancellerie occidentali affinché il piano di cessate il fuoco venga tradotto rapidamente in un accordo operativo. A complicare ulteriormente il quadro è la denuncia, da parte di alcuni Paesi musulmani, di modifiche unilaterali al piano originario proposto da una coalizione regionale. Alcuni governi sostengono che il testo presentato da Trump e Netanyahu non coincide con quello discusso in precedenza con i mediatori internazionali, alimentando il sospetto che il progetto sia stato riscritto per servire più gli interessi israeliani che quelli della popolazione di Gaza.
Il destino del piano resta incerto. Da un lato, Israele sembra determinato a proseguire le operazioni se Hamas non accetterà le condizioni proposte; dall’altro, il movimento palestinese cerca di guadagnare tempo, bilanciando le spinte interne e le pressioni diplomatiche. Sullo sfondo, la Flottiglia – ora dispersa e silenziata – resta il simbolo di un’altra battaglia: quella per l’accesso diretto agli aiuti e per la possibilità di esprimere solidarietà internazionale senza venire criminalizzati. Il conflitto resta intrappolato in una dinamica che oscilla tra diplomazia e minaccia armata, tra aperture strategiche e ostilità irriducibili. Se il piano verrà modificato o imposto, se Hàmas accetterà o rifiuterà, e se Israele sospenderà o intensificherà la propria offensiva, saranno sviluppi che si determineranno nei prossimi giorni. Ma qualunque sarà l’esito, resta il dato di fondo: Gaza è ancora sotto assedio, e la pace resta subordinata non solo al disarmo delle armi, ma anche alla rimozione delle condizioni che hanno reso la guerra, per molti, l’unica forma possibile di resistenza.







