Nel corso del XIX secolo, mentre l’Europa si ridefiniva tra alleanze e imperi coloniali, l’Italia unita cercava faticosamente di trovare una propria identità strategica. Il Mediterraneo, da secoli spazio naturale delle ambizioni italiane, sembrava tornare al centro dell’agenda politica. Eppure, proprio nel momento in cui si affacciava alla scena internazionale, l’Italia scelse – o fu costretta – a rinunciare a un’autonoma visione marittima.
Gli Accordi Mediterranei del 1887, siglati tra Regno d’Italia e Regno Unito (con il tacito consenso dell’Impero austro-ungarico), sembrarono inizialmente rappresentare un’affermazione diplomatica. Si trattava di intese segrete che avevano l’obiettivo dichiarato di mantenere lo status quo nel Mediterraneo, contenere l’espansionismo francese e garantire la sicurezza dell’Impero Ottomano, in particolare nella sua sponda orientale.
In realtà, a beneficiare realmente degli accordi fu soprattutto Londra, interessata a proteggere le rotte imperiali verso Suez e l’India. L’Italia, invece, ottenne poco più di una promessa di tutela, senza alcuna garanzia concreta per le sue ambizioni territoriali – ad esempio in Tunisia, già caduta sotto controllo francese nel 1881.
Le aspirazioni italiane a una politica mediterranea autonoma si scontrarono subito con un dato di fatto: l’Italia era ancora una potenza minore, priva di mezzi navali adeguati e dipendente dalla diplomazia delle grandi corti europee. Il governo Crispi, fautore dell’attivismo internazionale, si illuse di poter giocare un ruolo da protagonista al fianco della Gran Bretagna, ma finì per accettare un ruolo subordinato.
Questi accordi segnarono, di fatto, la fine dell’illusione di una proiezione imperiale italiana nel Mediterraneo, già indebolita dalla scomparsa della Serenissima nel 1797. Con Venezia era venuto meno l’ultimo esempio storico di potenza marittima indipendente nella penisola. L’Italia post-unitaria, pur affacciandosi sul mare con migliaia di chilometri di costa, non riuscì mai a trasformare quella posizione geografica in un vero potere strategico.
Il Mediterraneo, da possibile spazio di influenza, divenne una zona di attrito tra potenze straniere, in cui l’Italia si ritrovava spesso a fare da spettatrice, o al massimo da comprimaria. Anche i tentativi successivi di espansione – in Libia nel 1911, nel Dodecaneso dopo la Grande Guerra, fino all’avventura fascista – furono più frutto di opportunismi episodici che di una visione coerente.
Questa distanza culturale e politica dal mare ha lasciato un’impronta duratura. Ancora oggi, nonostante la posizione geografica centrale, l’Italia fatica a vedere nel Mediterraneo uno spazio di potenza. Le crisi migratorie, le tensioni in Libia, la competizione tra Turchia, Russia e Francia, e la presenza sempre più marcata di attori extraeuropei come la Cina, sono tutti fenomeni che avvengono nel “cortile di casa” italiano. Ma raramente si traducono in una strategia chiara o in una risposta autonoma da parte di Roma.
Gli Accordi del 1887 sono dunque più di un episodio diplomatico: rappresentano un nodo storico in cui le ambizioni mediterranee italiane si infransero contro la realtà geopolitica. E, in parte, continuarono a farlo nei decenni successivi.