Historia magistra vitae: Cesare, lustro e condanna della Res publica

All’indomani della battaglia di Munda (45 a.C.) dove le truppe cesariane prevalsero sui repubblicani conservatori filopompeiani, Cesare era ormai padrone assoluto della scena politica romana. In assenza di forti oppositori politici, il 14 febbraio del 44 a.C., il senato lo decretava, infatti, dictator perpetuus.

Sebbene il nuovo dictator avesse ottenuto la fiducia del Senato, l’atavica paura della possibilità del reiterarsi della monarchia serpeggiava tra i suoi oppositori, nonostante fossero passati 500 anni dalla cacciata di Tarquinio il Superbo.

La figura di Cesare fu sicuramente controversa, dalle molteplici sfaccettature ed interpretazioni, troncata nel mezzo della sua evoluzione. Autori contemporanei e successivi hanno preteso di ricostruirne il pensiero politico, propendendo alternativamente verso l’idolatria o, al contrario, la denigrazione.

Esemplificativo il caso del racconto dell’episodio dei Lupercalia. Innumerevoli volte raccontato, ma mai unanimemente commentato : Cicerone, che condanna il gesto di Antonio; Livio che lucidamente individua nell’episodio l’inizio della fine o ancora Nicola di Damasco che esalta la morigeratezza del dictator.

L’episodio dei Lupercali

Il 15 febbraio del 44 a.C., Cesare “seduto sui cosiddetti Rostri, su un trono d’oro, avvolto in un mantello di porpora”, prendeva parte alla festa dei Lupercalia. La processione dei Luperci, guidata da Antonio, si fermò innanzi al suo scranno. Inizialmente, si avvicinò un tale di nome Licinio, issato sui rostri, porse la corona ai piedi di Cesare, che furbescamente la ignorò.

Fu il turno di Cassio, il futuro cesaricida, che la prese e gliela pose sulle ginocchia, forse in segno di sfida. Cesare la ignorò.

Allora la prese Casca che nuovamente la porse al dictator. Finché Marco Antonio gliela pose sul capo a seguito di un’arringa ancora vestito con le pelli delle vittime sacrificali.

Alcuni tra la folla lo invocavano come rex, soprattutto coloro i quali si trovano più vicini, mentre i più lontani rumoreggiavano. 

In ultima istanza, Cesare prese la corona e, gettandola tra il popolo, esclamò che l’unico re di Roma fosse Giove Ottimo Massimo. Diede infine l’ordine di portarla nel suo tempio sul Campidoglio, poiché la corona apparteneva a lui solo.

Verso le idi di marzo

Le fonti raccontano come Cesare avesse ormai congedato la sua guardia ispanica mentre preparava la sua imminente campagna partica, radunando le sue forze nei pressi di Apollonia, sull’altra sponda dell’Adriatico.

Svetonio e Plutarco raccontano come la morte del generale fu anticipata da innumerevoli prodigi: il ritrovamento di una tavola di bronzo su cui vi era incisa inequivocabilmente la morte di un discendente di Iulo, “per mano di consanguinei e che ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia”; o ancora “le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Lo stessoaruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo.

Ovviamente ciò che si può ricavare da tali racconti è che la voce dell’imminente omicidio fosse in qualche modo circolata, che alcuni abbiano tentato di avvisare il dittatore, sebbene questi probabilmente le sottovalutò.

Inoltre, viene ricordato come la sera prima, il 14 marzo, a cena a casa di Lepido con anche Decimo Bruto, Cesare avrebbe risposto su una domanda filosofica posta sulla morte, asserendo di preferirne una improvvisa, non sapendo che di lì a poco sarebbe stato accontentato.

L’assassinio

Il giorno delle idi di marzo del 44 a.C., fu fissata la riunione del Senato che si sarebbe tenuta nei pressi del teatro di Pompeo, poiché la curia era provvisoriamente chiusa per lavori di ristrutturazione. Secondo la tradizione, Cesare sarebbe stato restio a parteciparvi, convinto dalle rimostranze della moglie Calpurnia, spaventata dai numerosi prodigi. Fu Decimo Giunio Bruto che lo persuase ad andare.

Varcata la soglia della Curia di Pomeo, Gaio Trebonio allontanò Marco Antonio, console insieme a Cesare nel 44 a.C., sia poiché si temeva sventasse l’omicidio, sia perché, nonostante le lamentele di Cicerone non rientrava nei piani dei congiurati.

Le parole di Appiano, raccontano con estremo pathos l’accaduto.

I congiurati lasciarono Trebonio a intrattenere Antonio con parole davanti alla porta: gli altri, sedutosi Cesare per primo, gli si tennero intorno in forma di amici, ma coi pugnali sotto il manto. Allora Tillio Cimbro, uno di essi, paratoglisi davanti, implorava il ritorno del fratello. Cesare ritardava la grazia, anzi la negava del tutto. Allora Cimbro pigliò, con l’apparente intenzione di supplicarlo, la porpora di lui; ma nel pigliarla la raggruppò e tirò per denudargli il collo gridando intanto: “Perché tardate ancora, amici!”. Allora Casca, soprastandogli al capo, lo pugnalò su per la gola; ma il colpo sfuggì, ferendo il petto. Cesare liberò la sua veste da Cimbro, afferrò la mano a Casca e, saltato giù dallo scranno, si girò verso Casca tirandolo violentissimamente: ma nel girarsi distese il fianco e un altro lì lo trafisse. Ed intanto con gli stili in pugno Cassio lo pugnalò sulla faccia, Bruto in un femore, e Bucoliano alla schiena. Cesare si voltava verso ciascuno fremendo e stridendo come una fiera ma dopo il colpo di Bruto, ormai disperando della vita, si avvolse il capo nel manto, e cadde con nobile modo ai piedi della statua di Pompeo. Gli assalitori infierirono su di lui caduto fino ai ventitré colpi, tanto che molti, per ansia di ferire lui, ferirono a vicenda se stessi e gli altri.” 

Appiano, Le guerre civili II, 116-117 

Cesare sarebbe dunque caduto a terra, morente, proprio di fronte la statua di Pompeo, ironia della sorte. Secondo l’autopsia che gli venne fatta successivamente dal medico Antistione (la lex Aquilia del 286 a.C. prevedeva si dovesse provare che la morte fosse stata violenta e non per cause naturali) scoprì che le pugnalate ricevute erano state ventitré e di queste solo la seconda risultava mortale.

 “Tu quoque, Brute, fili mi!”

Tutti almeno una volta nella vita abbiamo sentito questa frase ma quanto vi è di vero dietro alla leggenda?

Il primo a narrare gli eventi fu Svetonio, seguito da Cassio Dione, che racconta che Cesare, dopo le ventitrè pugnalate morì avvolgendosi la tunica ed emettendo un solo gemito, verso Bruto che gli si faceva incontro: “Kài sù, tèknon?” (Anche tu figlio?).

Spontaneo chiedersi perché Cesare avrebbe dovuto riferirsi a Bruto in greco, forse perché Svetonio fa riferimento a fonti greche, oppure – secondo alcuni – il condottiero, uomo raffinato e di cultura avrebbe potuto riferirsi al suo figlio adottivo con una dotta citazione dell’Orestea di Stesicoro

Inoltre, da sempre desta interesse un dettaglio dell’ultima frase di Cesare, il quale infatti si rivolge a Bruto come “figlio”. Come è ben noto, non vi era alcun grado di parentela tra il dittatore e il primo dei congiurati. 

Quindi la prima deduzione possibile è quella che Cesare abbia voluto usare tale parola come sinonimo di “persona particolarmente cara”, anche per sottolineare lo stupore di vedere un esponente della propria fazione brandire un pugnale per infliggergli il colpo di grazia. Tuttavia, un aneddoto sulla vita di Cesare potrebbe chiarire meglio il quadro la situazione: la madre di Bruto, Servilia Cepione, era infatti una donna affascinante e politicamente potente, la cui relazione con Cesare era nota a tutti e di antica data, per cui il dittatore poteva avere più di un motivo per ritenere che Bruto potesse essere un suo figlio bastardo.

Alcuni storici hanno avanzato tuttavia un altro dubbio: perché Cesare avrebbe dovuto insignire Bruto di un epiteto così onorevole come quello di figlio? Infatti, per quanto Cesare potesse sostenere Bruto, non poteva mai nutrire per lui un amore amicale così gratuito, dal momento che Marco Giunio Bruto aveva militato tra le fila di Pompeo durante la Guerra Civile, per poi passare al partito cesariano dopo quel di Farsalo (48 a.C.).

Da qui, si è pensato allora che il Bruto a cui si riferisce Cesare sia Decimo Giunio Bruto Albino, per cui invece il dittatore nutriva una stima spassionata e sincera. Decimo, infatti, fu uno dei legati di Cesare in Gallia e uno dei comandamenti cesariani di rilievo durante la guerra civile, per cui divenne uomo di completa fiducia per il dittatore, che lo citò anche nel suo testamento. Fu proprio lui a convincere Cesare a recarsi in Senato, allontanando le preoccupazioni della moglie Calpurnia.

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