Iraq, 2003: l’inizio della fine (del Momento unipolare)

Un giorno come oggi, ma del 2003, l’amministrazione Bush posava inavvertitamente la seconda pietra fondativa della Terza guerra mondiale in frammenti, dopo l’intervento dell’Alleanza Atlantica in Iugoslavia, con l’invasione dell’Iraq e la successiva uccisione di Saddam Hussein.

Oggi è possibile affermare con certezza, senza pretestuosità, che la guerra che avrebbe dovuto consolidare quello che negli Stati Uniti veniva chiamato il Momento unipolare, emerso alla caduta dell’Unione Sovietica, ne ha cagionato il declino. E per capire come ciò sia stato possibile è necessario fare un salto indietro al 2003.

Saddam deve cadere!

Gli strateghi della presidenza Bush avevano immaginato un cambio di regime semplice e veloce: la forza del numero e la potenza di fuoco della “coalizione dei volenterosi“, condensate nella formula “shock and awe“, avrebbero dovuto consegnare l’Iraq ad un nuovo destino in tempi brevi e con pochi costi per la popolazione.

Saddam cadde effettivamente in pochi mesi, entro la fine dello stesso anno, ma null’altro di quello che avevano previsto e/o propagandato gli Stati Uniti si sarebbe avverato e/o rivelato vero:

  • Saddam non aveva armi di distruzione di massa;
  • Saddam non aveva legami con Al-Qāʿida e Osama bin Laden;
  • Il regime change non rese più sicuro il mondo;

Alla caduta di Saddam, catturato barbaramente e ucciso ancor più selvaggiamente, sarebbe seguita una tremenda guerra civile destinata a sconvolgere il mondo intero. A causa dei morti – più di cinquecentomila –, degli sfollati – oltre quattro milioni – e delle conseguenze indesiderate – l’espansione dell’Internazionale jihadista e la nascita dello Stato Islamico.

Gli Stati Uniti, e in esteso l’Occidente, si sarebbero giocati la loro credibilità in Iraq: un nemico vinto al costo dell’egemonia globale. Giacché Saddam non aveva armi di distruzione di massa né legami con Al Qaeda, cioè era innocente rispetto alle colpe contestategli e alla base dell’invasione. E giacché i suoi abbattitori, fra stragi di civili – il massacro di piazza Nisour –, indifferenza del diritto internazionale – emblematizzata dal completo disinteresse della presidenza Bush verso posizioni e risoluzioni delle Nazioni Unite – e crimini contro l’umanità – le torture nella prigione di Abu Ghraib –, non si sarebbero rivelati meglio della dittatura.

Cina e Russia erano contrarie all’invasione. L’Europa era spaccata tra interventisti, capeggiati da Londra, e scettici, guidati dall’asse Parigi-Berlino. Il Vaticano voleva che Washington desistesse. Ma Bush e Tony Blair erano stati chiari: regime change.

Bush aggirò i possibili veti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le rimostranze degli alleati occidentali mettendo su la celebre “coalizione dei volenterosi”. Ma l’invasione-lampo dell’Iraq sarebbe stata destinata, come quella dell’Afghanistan, a diventare una “guerra infinita“.

L’impatto a posteriori della distruzione iraqena

Il tutti-contro-uno in Iraq, già visto in Iugoslavia nel 1999, fu determinante nel convincere Russia e Cina a sveltire i lavori all’interno del neonato cantiere dell’Intesa cordiale in chiave anti-unipolare.

Il ritorno di fiamma dell’invasione, previsto da Zbigniew Brzezinski e Giovanni Paolo II, sarebbe stato ustionante: dalle ondate violente e persistenti di antiamericanismo nel Sud globale, specie in quell’Islamosfera che i neoconservatori sognavano di trasformare nel terzo giardino degli Stati Uniti – dopo Latinoamerica ed Europa –, all’ingresso nel buco nero iraqeno di cinesi, russi, iraniani e jihadisti.

Dimostrando di non aver imparato dagli errori del fallimento iraqeno, e probabilmente accecato da quella che la politologia chiama “arroganza imperiale” – patologia peculiare ad imperi e grandi potenze –, l’Occidente avrebbe riutilizzato la “ricetta Iraq” anche in Libia, nel 2011, ottenendo l’identico risultato: la creazione di un pantano caotico ed ingestibile, più utile ai rivali dell’America che a se stessa e ai suoi alleati.

Libia come Iraq: civili prime e principali vittime dei grandi giochi tra potenze, crisi migratorie, insorgenze settarie, proliferazione di zone grigie, terrorismo e ultimo, ma non importante, tante ustioni sul viso dell’Europa, più vulnerabile a tutto ciò che accade nell’area Medio Oriente e Nord Africa rispetto agli Stati Uniti per via della geografia e della demografia.

Libia come Iraq: ondate di antioccidentalismo e crescendo globale della diffidenza nei confronti della Pax Americana. Ma morto Mu’ammar Gheddafi, si giurarono Russia e Cina – ormai saldamente avviate sulla strada dell’unione simbiotica –, agli Stati Uniti non sarebbero state più date occasioni di mietere sull’altare del Momento unipolare.

La promessa sinorussa per la Transizione multipolare avrebbe assunto la forma dell’intervento salvifico a favore di Bashar al Assad nel 2015, data la consapevolezza della possibilità di un’implementazione della ricetta iraqena in Siria. Assad salvato sul filo del rasoio dai soldati russi, dai capitali cinesi (e dai paramilitari iraniani).

Il mondo vent’anni dopo

Oggi, nel ventesimo anniversario dell’invasione dell’Iraq, si può affermare che un grande e inaspettato vincitore della War on Terror è stato il rinato Impero celeste, la Cina, che, fra contratti energetici, appalti per la ricostruzione e supporto popolare e politico nell’islamosfera – stufa delle interferenze occidentali negli affari interni e terrorizzata dallo spettro iraqeno –, ha costruito ampie sfere d’influenza in Medioriente.

Oggi, nel ventesimo anniversario dell’invasione dell’Iraq, si può affermare che la guerra più importante della War on Terror, pianificata dalla scuola neocon per anni – chi si ricorda del Progetto per un nuovo secolo americano? –, è stata un colossale fallimento. Fallimento il cui costo è stato pagato da tutto l’Occidente, fra ritirate diplomatiche e vittime collaterali. Fallimento iconizzato dalla diffusione di sentimenti antioccidentali e di movimenti per il superamento del “sistema internazionale basato sulle regole” in lungo e in largo il Sud globale.

Saddam è morto, sì, ma gli Stati Uniti hanno smesso da tempo di festeggiare sul suo cadavere. Perché l’Iraq è poi entrato nell’orbita sino-russo-iraniana. Perché un caro alleato come il Pakistan è diventato un satellite della Cina. Perché le Primavere arabe hanno prodotto risultati misti. Perché le classi dirigenti e le opinioni pubbliche mediorientali son più diffidenti che mai dell’Occidente e delle sue battaglie.

Saddam è morto, sì, ma gli Stati Uniti hanno smesso da tempo di festeggiare sul suo cadavere. Perché quella che avrebbe dovuto essere la più ambiziosa esportazione di democrazia dell’era unipolare ha, al contrario, contribuito in maniera determinante ad abbattere il mito della superiorità del modello liberaldemocratico occidentale. E perché i paesi del Golfo, stufi di guerre civili, insorgenze, ingerenze interne, terrorismi e divide et impera, stanno sposando, uno dopo l’altro, la causa multipolare dell’asse Mosca-Pechino.

L’Iraq, a vent’anni dall’inizio dell’invasione che avrebbe dovuto apportare linfa vitale al Momento unipolare, è dove gli Stati Uniti hanno inavvertitamente ferito (mortalmente?) la loro visione per il Duemila. E dato un assist alla materializzazione della weltanschauung del loro principale sfidante, la Cina, la cui Pax Sinica avanza sulle ceneri della Pax Americana. Pace della quale la normalizzazione irano-saudita è solo il primo tassello. E che senza gli errori di calcolo di George W. Bush non sarebbe mai stata possibile.

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