La Trama Fenicia di Wes Anderson: Wes Anderson mette in scena Wes Anderson

In concorso a Cannes 2025, nel suo nuovo film Wes Anderson torna a giocare con i suoi pupazzi preferiti. Con grazia, ma senza cuore.

Simmetrie maniacali? Presenti. Dialoghi piatti recitati con zelo scolastico e alla velocità della luce? Presenti. Una quantità enorme di star riciclate dal suo personale repertorio? Presenti. Ma in “La trama Fenicia” (in originale “The Phoenician Scheme”) sotto tutto questo, il film c’è? C’è e cerca di rimanere in piedi con una certa grazia ma a fatica.

In un non luogo e non tempo che il materiale stampa indica come Medio Oriente da diorama del 1956 (da soli non l’avremmo capito), l’industriale megalomane Zsa-zsa Korda sopravvive al suo sesto attentato e decide che è il momento giusto per lasciare la sua eredità non a uno dei suoi nove figli ma alla figlia che ha abbandonato in un convento e che sta per diventare suora. Liesl, la novella suora, accetta l’invito non per riconciliarsi, ma per scoprire se lui ha ucciso sua madre. Lui le propone di seguirlo in un folle giro geopolitico per realizzare un’improbabile opera infrastrutturale che dovrebbe garantirgli l’immortalità imprenditoriale: La trama fenicia, appunto.

Benicio del Toro è la figura centrale di una parabola che vorrebbe essere un’epopea familiare ma finisce per essere un carosello hipster. Gli abiti in tweed, le scatole di scarpe usate come storyboard, i viaggi nei paradisi in bianco e nero dove Dio è Bill Murray (e viceversa), il tutto costruito con il rigore di un architetto zen. Il regista texano, non ha mai nascosto il suo amore per la simmetria, le palette pastello e i movimenti di macchina orizzontali. Ma se nel capolavoro The Grand Budapest Hotel (2014) tutto questo è parte integrante del racconto qui in The Phoenician Scheme il barocchismo visivo è fine a sé stesso. Un negozio di giocattoli, un museo delle cere privo di vere tensioni emotive.

La scrittura è forse il lato più interessante del film. Anderson torna a una struttura episodica, simile a quella di The French Dispatch (2021), ma con una maggiore coesione e qualche guizzo brillante. Le dinamiche da commedia geopolitica sono ben dosate, e l’umorismo, seppur sempre filtrato dal solito aplomb, funziona meglio che in altri suoi film recenti. Non è Fantastic Mr. Fox (2009), ma neanche la sterilità di Asteroid City (2023). Tornando sull’ umorismo, questo è più riuscito rispetto ad altri titoli recenti e alcune trovate (vedi la partita di basket con Tom Hanks e Riz Ahmed) sono un sollievo. Purtroppo anche il cuore del film, quel rapporto padre/figlia e il senso di colpa/la redenzione, è invaso da un humor che rende il tutto troppo evanescente creando danni dal lato dell’empatia. Wes Anderson sembra più interessato al contenitore che al contenuto È tutto sotto vetro, come se anche la tragedia dovesse rientrare nei parametri estetici dell’ironia calibrata.

Come se ci dovessero essere per contratto, tornato i “grand temi andersoniani”: la famiglia, l’eredità, la fuga etc etc etc. Ma se nel passato sulle caricature sì vedevano le crepe, i personaggi sanguinavano sotto la superficie come il malinconico Steve Zissou nel bellissimo The Life Aquatic (2004), adesso sono archetipi o attori famosi sotto costumi ben scelti. Sono miniature astratte e senza vita, che rischiano di essere più inquietanti di quelle horror in Hereditary di Ari Aster. 

Wes Anderson ci ha dato di peggio perché The Phoenician Scheme è divertente e ben confezionato, ma è il regista che cerca di mettere in scena sé stesso, le storie e i personaggi non contano più.  Chi si aspettava un’evoluzione, si troverà difronte a una reiterazione sempre più manierata del proprio stile.

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