Le tensioni avvenute nei giorni scorsi in Libia sono il risultato della forte frammentazione territoriale ed istituzionale, in un Paese in cui non si tengono elezioni nazionali dal 2014
Gli scontri fra milizie degli ultimi giorni, che hanno provocato la morte di almeno 70 persone a seguito dell’uccisione del leader della brigata Rada Abdelghani al-Kikli, hanno sottolineato la forte instabilità del territorio libico, storicamente diviso in tre anime ed istituzionalmente in due governi: le tre regioni principali, quali la Tripolitania, la Cirenaica e la zona desertica meridionale riferibile a Fezzan, uno dei fronti più caldi, sia sotto il profilo della sicurezza che per quanto riguarda gli sviluppi della contrapposizione tra i diversi attori politici e militari nazionali, non solo rappresentano divisioni geografiche, ma anche distinzioni etniche, politiche ed economiche che ancora oggi influenzano profondamente la situazione del Paese. I due governi sono invece identificabili l’uno nel GNU, Governo di Unità Nazionale, riconosciuto dalle Nazioni Unite, con a capo Abdul Hamid Dbeibah come primo ministro ad interim, affiancato dall’Alto Consiglio di stato e dal Consiglio presidenziale, che presiede la parte nord-ovest del paese con capitale Tripoli, l’altro nel Governo di stabilità nazionale, insistente nella parte ad est del paese ed in molte delle regioni della Libia centrale e meridionale. Queste aree, se nominalmente sono controllate dalla Camera dei Rappresentanti, in realtà sono gestite dal generale Khalifa Haftar, storico antagonista del governo tripolitano. Molte sono state le iniziative da parte delle Nazioni Unite per trascinare il paese verso nuove elezioni, ma tale opportunità è sempre stata mal digerita dagli uomini forti e dai politici libici, che preferiscono posticipare (eludere?) le stesse per preservare posizioni di potere. Lo stesso Dbeibah, già qualche anno fa, pose come condizione per l’apertura verso potenziali votazioni l’adozione di una nuova Costituzione, presupposto che apparve già allora piuttosto come una tattica dilatoria in un paese in cui le tensioni tra i leader politici e militari generano una profonda polarizzazione della popolazione, difficilmente arginabile.
I disordini dei giorni scorsi, attualmente contenuti da un proclamato cessate il fuoco, se formalmente provocate dall’uccisione di Abdelghani al-Kikli, detto “Ghaniwa”, leader dell’SSA, ossia l’Apparato di Supporto e Stabilità, considerato uno dei più importanti comandanti delle milizie della capitale, per mano della brigata 444, fedele al primo ministro Dbeibah, è stata probabilmente indirizzata dalla necessità da parte del governo di Tripoli di epurare tutte le milizie e le forze di pressione presenti in Libia esterne a quelle governative ed all’esercito, al fine di stemperare le continue tensioni rivolte principalmente ad estendere potere territoriale ed a controllare il traffico di petrolio. Come dichiarato dallo stesso Abdelhamid Dbeibah in un incontro avvenuto il 21 maggio a Tripoli con la presenza di diversi ambasciatori europei, fra i quali l’ambasciatore dell’Unione Europea, gli ambasciatori di Italia, Regno Unito, Grecia e Inghilterra ed il vice ambasciatore di Francia, la prima necessità della Libia è fermare la lotta tra le milizie che fin dal 2012, dalla destituzione quindi di Gheddafi, insistono nel creare sconvolgimenti ed instabilità. Il tentativo di riportare queste forze sovversive sotto il controllo governativo è stato mosso dall’esigenza di rafforzare il ruolo del potere centrale, con l’intenzione di creare un esercito unico sotto il controllo del GNU, non soltanto per smorzare le pressioni civili ma anche per cercare di destituire il governo dell’est libico a favore di un’unità nazionale. Durante l’incontro con i diplomatici europei, Dbeibahha sottolineatola sua predisposizione a collaborare con la Corte penale internazionale per combattere l’impunità e garantire l’accertamento delle responsabilità per i gravi crimini commessi contro la popolazione da parte dei gruppi armati. La Libia ha infatti recentemente accettato la giurisdizione della Corte penale internazionale lasciando che indaghi circa le presunte atrocità commesse dal 2011 sul suo territorio. Questo è un passaggio fondamentale nella storia della Libia, che non è firmataria dello Statuto di Roma – il trattato che nel 1998 istituì la Corte penale internazionale – non riconoscendone dunque la giurisdizione, nonostante il Consiglio di sicurezza dell’ONU nel febbraio del 2011 avesse chiesto alla Corte di aprire un’indagine sui crimini commessi in territorio libico relativamente alla violenta repressione a seguito delle proteste pacifiche contro il regime di Muammar Gheddafi, poi destituito.
L’impasse delle elezioni
La Libia affronta un persistente stallo politico, con elezioni nazionali rimandate – anche – a causa di disaccordi su questioni costituzionali e candidature. Come sottolineato dal Comitato consultivo dell’Onu su report della Missione di Supporto in Libia (Unsmil) è necessario affrontare dapprima il nodoso problema elettorale per poter proporre, successivamente ad un governo unico e centralizzato, un esercito nazionale, che possa contrastare le milizie, smembrarle e smilitarizzarle. “I disaccordi sul quadro elettorale della Libia hanno trascinato il Paese in una situazione di stallo politico, con conseguente crescente instabilità economica e di sicurezza”: così l’Unsmil, che per superare l’immobilismo che permane dal 2021, sottolinea la piena disponibilità da parte dell’ONU a sostenere ed orientare al meglio la fase di unificazione del Paese, che passa necessariamente attraverso nuove elezioni, mettendo a disposizione del governo libico un Advisory Committee, “in accordo con la Risoluzione 2755 (2024) del Consiglio di sicurezza”,ossia un metodo tecnicoteso ad orientare il processo di creazione di un sistema elettorale che possa superare le cavillose controversie nelle proposte di voto, proponendo modalità che tengano conto degli aspetti multilocali, prospettando soluzioni che possano essere condivisibili tra i vari attori istituzionali che saranno i protagonisti del ventaglio elettorale.
La Libia è dunque ad una svolta?
La possibilità di un ritorno alla stabilità dipende dalla capacità delle istituzioni di affrontare le sfide politiche, economiche e sociali. Risolvere il problema delle elezioni dunque, vagliare e definire gli accordi petroliferi e stabilizzare la popolazione da un punto di vista civile ed umanitario. Queste continue e forti tensioni provocano nella popolazione smarrimento ed affiliazione con l’una o l’altra fazione, rendendo ancora più complicata la stabilità interna. La comunità internazionale ha un ruolo cruciale nel sostenere il processo di pace, con l’Onu in particolare che si pone come mediatore, tentando di facilitare il dialogo tra i gruppi rivali e di orientare la prossima fase del processo politico in Libia, ma le aspettative nelle istituzioni rimane bassa a causa dello scetticismo rispetto alla volontà dei leader di cedere il potere. Non solo: va tenuto conto delle forti pressioni internazionali sulla Libia, specialmente da parte di Cina e Russia. A seguito alla caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria infatti, la Russia ha trasferito sistemi di difesa aerea e altre risorse belliche nell’est della Libia, consolidando la propria presenza in questa parte del paese, suscitando le preoccupazioni di diversi membri della Nato, tra cui l’Italia. Sul fronte interno invece, dopo l’eliminazione mirata di “Ghaniwa”, figura chiave nell’equilibrio delle forze nella capitale, Lufti Al-Harari, guida dell’intelligence interna, è stato rimosso: al suo posto, Mustafa Ali Al-Wahishi, veterano dei servizi libici e originario di Zintan.
Al di là dei supporti Onu, la Libia resta un paese diviso e fragile, dove sarebbe necessario un impegno concreto da parte delle autorità locali verso la riconciliazione e la ricostruzione.