Perché l’Europa chiude gli occhi su Israele

Dichiarazioni, appelli, conferenze. Ogni volta che esplode una nuova crisi in Medio Oriente, Bruxelles risponde con la stessa formula: condanna delle violenze, invito alla moderazione, richiamo alla soluzione dei due Stati. Ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, tutto si arena. È successo di nuovo nei mesi scorsi: la Commissione europea ha proposto di sospendere la partecipazione di Israele al programma di ricerca Horizon Europe, un fondo da 95 miliardi di euro che finanzia università e imprese in tutto il continente. Una misura pensata per dare un segnale politico, dopo i bombardamenti su Gaza. Ma Germania e Italia hanno frenato. E il progetto si è ridimensionato a un “parziale stop”, subito contestato da altri Stati membri.

Il peso della memoria e Israele come proxy occidentale

La prima ragione è la storia. In Europa, la responsabilità per la Shoah continua a determinare ogni posizione ufficiale su Israele. D’altronde l’olocausto e il conseguente esodo ebraico verso Israele sono stati, fattori determinanti per una creazione di uno Stato ebraico.

Ma non si tratta solo di memoria. Israele è considerato, a Bruxelles come a Washington, un avamposto dell’Occidente in Medio Oriente. Un paese democratico e relativamente stabile, circondato da dittature, guerre civili e regimi ostili. È un partner militare e tecnologico, con cui l’Europa collabora strettamente in settori cruciali: sicurezza informatica, droni, ricerca farmaceutica, innovazione digitale. Perdere questo rapporto significherebbe rinunciare a una fonte di know-how e di protezione in un’area altamente instabile.

L’altro pilastro della politica europea è l’allineamento con Washington. L’Unione non prende quasi mai iniziative che possano incrinare il rapporto transatlantico.

A complicare tutto c’è la mancanza di unità interna. Per adottare sanzioni servirebbe l’unanimità dei 27 Stati membri. Ma se Spagna, Irlanda e Belgio spingono per una linea più netta, altri come Germania, Austria e Ungheria la bloccano. Risultato: dichiarazioni caute, compromessi al ribasso, promesse senza seguito.

Le lobby e gli interessi economici

Infine, ci sono i rapporti economici e il peso delle lobby. Israele partecipa da anni ai programmi di ricerca europei, dal settimo programma quadro a Horizon. Le sue università e le sue aziende hi-tech ricevono fondi europei, e in cambio condividono innovazioni in campo medico, ambientale e digitale. Una rete di interessi che nessun governo vuole compromettere. In parallelo, organizzazioni filo-israeliane operano a Bruxelles e nelle capitali, orientando il dibattito politico e mediatico.

In Europa, diverse organizzazioni e aziende israeliane esercitano un’influenza crescente sulla politica, sulla cultura e sulla tecnologia. Tra le più attive spiccano ELNET e European Friends of Israel (EFI), che organizzano visite istituzionali, incontri con europarlamentari e campagne di advocacy per rafforzare i legami tra Bruxelles e Tel Aviv. Il loro obiettivo dichiarato è promuovere la sicurezza e la legittimità dello Stato israeliano, ma la loro presenza nei palazzi europei solleva dubbi sul peso che possono avere nel condizionare decisioni politiche e legislazione. Parallelamente, aziende come Archimedes Group, specializzata in campagne digitali, operano per orientare l’opinione pubblica e i leader politici, anche attraverso strategie sui social media. Tuttavia, le loro pratiche hanno suscitato critiche: nel 2019 Archimedes Group è stata bandita da Facebook e Instagram per “comportamento non-autentico coordinato” dopo aver speso oltre 1 milione di dollari in pubblicità mirate a influenzare elezioni e dibattiti pubblici. Allo stesso tempo, organizzazioni come Creative Community for Peace, attiva nell’industria dell’intrattenimento, lavorano per contrastare il movimento BDS e consolidare l’immagine di Israele nel dibattito europeo. L’insieme di queste attività crea un ecosistema di lobbying sofisticato, capace di incidere su scelte politiche, media e percorsi culturali, rendendo l’influenza di Tel Aviv più pervasiva e meno visibile di quanto la retorica diplomatica lasci intendere.

Un’Europa marginale

Così, la posizione europea resta sospesa tra la fermezza verbale e la paralisi politica. Bruxelles condanna gli insediamenti, ma non adotta misure vincolanti. Annuncia la sospensione di fondi, ma poi la ridimensiona. Promette regole commerciali più rigide, ma non trova l’unanimità necessaria. Israele rimane intoccabile: alleato occidentale, partner tecnologico, simbolo storico.

Il rischio, per l’Unione, è di restare irrilevante. Mentre gli Stati Uniti trattano con Netanyahu e i paesi arabi si muovono sul piano diplomatico, l’Europa appare come spettatrice impotente. Una presenza che parla di pace e diritti, ma che non riesce a trasformare i principi in azione.

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