Perché l’Italia non ha responsabilità sull’ultimo naufragio in Libia

Domenica si è consumata l’ennesima tragedia in mare: a poche miglia dalle coste libiche, davanti Bengasi, si è rovesciato un barchino che trasportava decine di migranti. Le vittime e i dispersi, unite a quelle di Cutro, hanno gettato benzina ulteriore sul fuoco della diatriba politica: la Guardia Costiera e l’Italia – quindi il governo – sono stati accusati nuovamente di aver fatto morire delle persone. 

A ben vedere, la situazione è molto complessa e non può ridursi a mera battaglia tra partiti, né a una qualunquista affermazione del tipo “avete preferito la burocrazia alla vita degli innocenti”. 

Innanzitutto, l’ultimo naufragio è avvenuto a poche miglia dalle coste della Libia, in un’area SAR (“Search and Rescue”, ovvero zone adibite alla ricerca e al soccorso con competenze ripartite tra Stati) di competenza libica. Tecnicamente, le navi italiane possono fare ingresso nell’area propria della Libia, ma dal punto di vista normativo è la Libia ad essere obbligata a intervenire, dopo aver ricevuto l’allarme. E comunque, qualora si volesse procedere col ragionamento per aree, al di sopra della zona SAR libica non c’è quella italiana, bensì quella maltese. Malta, come spesso accade, si è disinteressata del problema. Pertanto, sia perché le attrezzature italiane sono tra le migliori del Mediterraneo, ma comunque inidonee a percorrere tratte così lunghe in tempi adeguati al pronto soccorso, sia perché rispetto alla negligenza degli altri l’Italia interviene sempre, l’iniziativa è stata presa dalla Guardia Costiera italiana. Ricevuto l’allarme, è stato condiviso un messaggio satellitare diretto alle imbarcazioni presenti nell’area prossima alla zona del naufragio; tant’è che il “Basilis L”, nave mercantile, è stato il primo ad arrivare sul posto, purtroppo quando alcuni erano già affogati. La Guardia Costiera, infine, non ha potuto inviare motovedette in loco a causa della lunga distanza: a fronte di un’autonomia massima di 500 chilometri, il viaggio, tra andata e ritorno, sarebbe stato di oltre 600, pertanto impossibile da compiere. E le altre navi, come ricordato da Gianluca d’Agostino, capo del centro di Soccorso della Guardia Costiera, erano impegnate in diverse operazioni e avrebbero impiegato circa 20 ore per raggiungere le coste libiche. 

Appare evidente come l’Italia, che è geograficamente un front-line State, non può risolvere da sé il problema. Sia perché i fenomeni migratori dipendono altresì da ragioni geopolitiche, che prevedono situazioni in cui uno Stato sfrutta gli immigrati per affermare il proprio hard power (Turchia ieri, Russia oggi), sia poiché una legge di diritto interno non sarebbe sufficiente a chiudere anni di flussi incontrollati provenienti tanto dall’Africa quanto da Est – la politica del “blocco navale”, infatti, è stata abbandonata da Giorgia Meloni una volta giunta a palazzo Chigi. 

Dunque, laddove l’Italia è sola e posizionata alla frontiera degli accessi, la soluzione del problema andrebbe trovata in seno al Parlamento Europeo. Oggi, in tema di immigrazione irregolare e richieste di asilo, la politica europea è regolata dal regolamento di Dublino III (firmato nel 1990, efficace dal 1997). In particolare,  esso stabilisce quale sia lo Stato membro competente a esaminare la domanda di protezione internazionale all’interno dell’Ue. Con un riassunto utile ai fini conoscitivi, il sistema prevede che la domanda di asilo venga esaminata solo in uno Stato e il rifugiato possa rimanere solamente lì, così da evitare gli “spostamenti secondari”. Tuttavia, il criterio per stabilire il Paese che debba esaminare la domanda di protezione è iniquo: è responsabile quello dove il cittadino richiedente ha fatto ingresso illegale. Ciò è estremamente penalizzante per l’Italia, sia per le ragioni geografiche sopraccitate, sia perché per fare ingresso nei Paesi “Schengen” è necessario un visto e, in riferimento ai fenomeni africani, tra gli Stati dell’Africa solo Mauritius e Seychelles non hanno bisogno del visto per entrare nell’area di libera circolazione europea. Viene facile immaginare come i cittadini di tutti gli altri Stati, più poveri e di minore attrazione turistico-sociale, rispetto ai due in esempio, siano costretti a fare ingresso irregolare. 

Perciò, data la difficoltà della materia, che unisce diritto internazionale, europeo e nazionale a una comprensibile “morale” e umanità, sarebbe bene che la querelle politica fosse ridotta al minimo. Soprattutto a sinistra, dalla cui parte stanno piovendo accuse forti e infondate verso il governo, alcuni esponenti di area farebbero bene a evitare affermazioni improprie. In primo luogo, poiché i naufragi, purtroppo, accadevano anche quando i partiti di sinistra erano al governo; in secondo luogo, perché la complessità della tematica dà spazio a narrazioni fuorvianti e rischia di scatenare una guerra tutti contro tutti, col pericolo di perdere di vista le fonti del problema. Quella primaria, cioè il rapporto tra Stati di partenza, mafie locali e grandi attori geopolitici; quella secondaria, ovvero l’inerzia dell’Ue nel modificare il regolamento di Dublino III. 

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