Pier Paolo Pasolini, il Corsaro tra linguaggio e idea

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Pier Paolo Pasolini è un autore che o si ama o si odia. Non esistono mezze misure per la percezione di tale artista nel panorama letterario o cinematografico o più semplicemente culturale, come non ebbe lui stesso mai mezze misure. Per tale ragione, spesso viene utilizzato come una sorta di “contenitore”; a uso e consumo si prelevano le sue frasi, le sue interessanti considerazioni e si banalizza PPP con la semplice etichetta di “profeta” di tutte le cose. Non sembra che il web in particolar modo possa identificare chi sia Pasolini, non per una questione di superficialità che, comunque, è spesso presente, quanto per il fatto che l’eclettismo innegabile di questa figura fondamentale per il Novecento mette in crisi non poco. Concentrarsi unicamente sul Pasolini giornalista tralasciando il poeta, il romanziere, il regista, sembra quasi uno sgarbo, né è possibile.

Per dirla nei termini di Giovanni Testori quando, il 9 Novembre del 1975, scrisse per l’Espresso l’articolo “A rischio della vita”, proprio per l’assassinio del grande intellettuale, Pier Paolo Pasolini, con le sue implacabili interrogazioni, è riuscito a stregare. L’articolo è come sempre intenso e pregno di ripetizioni volute, di neologismi costituiti da quella  “nientità” che ricostruisce bene l’essenza della vita e della scomparsa dell’autore:

Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l’angoscia dell’essere diviso, dell’essere soltanto una parte di un’unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l’angoscia dell’essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l’abitudine di chiamare “diversi”.

Per quanto sia doveroso citare un altro grande giornalista come Testori, con ciò si cade nel solito “errore”, quello di trattare Pasolini come un martire e di vedere la sua vita solo nell’ottica del suo epilogo. Eppure, in vita PPP fu tutto fuorché un martire, bensì un Corsaro, come dimostrano gli Scritti Corsari, una raccolta dei più importanti articoli, interventi e interviste che produsse, uscita nel 1975, proprio nell’anno della sua morte, ma fece in tempo a sistemarla. Anche tenendo conto di questa sua personalità, risulta quantomeno scorretto verso questo intellettuale prendere il suo repertorio solo per vantarne l’attualità, poiché le considerazioni di Pasolini per quanto illuminanti anche ai giorni nostri, sono la dimostrazione di un’analisi accurata del suo periodo storico, della sua contemporaneità, un pregio che la mania di definirlo “profeta” gli ha raramente riconosciuto (anche se sicuramente ha potuto prevedere certi momenti della storia, grazie al suo brillante intelletto).

La forza di Pasolini risiede nell’unione sistemica e sistematica tra linguaggio e idee. Sistemica in quanto, a un sistema fatto di interconnessioni, appartiene la sua capacità di strutturare un articolo o un discorso; sistematica è un termine che qui si utilizza con voluta ambiguità. È sistematica quella parte delle scienze naturali che classifica e nomina gli esseri viventi, cosa che Pasolini ha fatto quando definisce con il nome giusto esattamente tutto ciò che gli si presenta davanti. Sistematica significa però, in filosofia, ordinare in un complesso definito le conoscenze, qualcosa che idee e linguaggio pasoliniano sono sempre egregiamente riusciti a realizzare. Idea è quel grimaldello che la mente sveglia e acuta dell’autore, che sarebbe giunto oggi al centesimo compleanno, produce, dalla quale parte tutto. Interconnesso al brillante utilizzo della parola come strumento e veicolo di conoscenza.

L’essenza stessa dell’espressione attraverso la lingua è, principalmente, ricostruire idee nel modo più efficace. È questo ciò che devono fare gli intellettuali, quel quid in più che posseggono, la padronanza dello strumento. Tuttavia, Pasolini è un intellettuale e non un intellettualoide, quando padroneggia il linguaggio in funziona dell’idea sa bene che i paroloni sterili sono come delle belle tende che adornano una finestra rotta. Ecco perché, nato a Bologna, ad esempio in “Ragazzi di vita”, userà il dialetto romano. Il linguaggio è funzionale a ciò che si deve esprimere; dell’erudizione sterile Pasolini non sa che farsene.

Noi intellettuali tendiamo sempre a identificare la «cultura» con la nostra cultura: quindi la morale con la nostra morale e l’ideologia con la nostra ideologia. Questo significa: 1) che non usiamo la parola «cultura» nel senso scientifico, 2) che esprimiamo, con questo, un certo insopprimibile razzismo verso coloro che vivono, appunto, un’altra cultura. Per la verità, data la mia esistenza e i miei studi, io ho sempre potuto abbastanza evitare di cadere in questi errori. Ma quando Moravia mi parla di gente (ossia in pratica tutto il popolo italiano) che vive a un livello pre-morale e pre-ideologico, mi dimostra di esserci caduto in pieno, in questi errori.

Dall’intervista “11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia”

Negli articoli, questo è anche più vero. Quando in “Scritti Corsari” modifica i titoli di articoli già usciti, Pasolini vuole fare un bilancio di qualcosa che ha già detto ma è bene riprendere. È chiaro che è impensabile ripercorrere ogni singolo articolo del Pasolini giornalista, ma uno in particolare è celeberrimo e anche tristemente ricordato, in quanto si è ipotizzato, tra le altre cose, che queste sue parole abbiano spinto a farlo uccidere.

Si tratta di un articolo apparso sul Corriere della sera il 14 Novembre 1974 con il titolo “Cos’è questo golpe?”, per poi riapparire un anno dopo sugli “Scritti Corsari” con un titolo diverso: “Il romanzo delle stragi”. Pasolini probabilmente scelse tale nome in quanto, effettivamente, in questo articolo cita una serie di stragi: piazza Fontana, piazza della Loggia. L’incipit è celeberrimo per l’anafora “Io so”:

Io so.

Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.

Fin dall’inizio, Pasolini afferma di conoscere i nomi dei colpevoli di quelle stragi, ovviamente, come sottolinea Floriana Calitti, è un modo per catturare l’attenzione del lettore. Con un tono incalzante e con questa anafora, infatti, Pasolini rende impossibile interrompere la lettura del suo articolo. Non solo perché, banalmente, il lettore medio immagina di poter conoscere davvero i nomi, ma proprio per lo stile che adotta. Ecco il metodo pasoliniano in tutta la sua grandezza: linguaggio efficace, ipnotico e, soprattutto, un’idea.

Infatti, alla fine asserisce di non poterlo dire, non avendo le prove di chi sia stato ma, soprattutto, perché l’intellettuale non ha il potere di cambiare le cose, quel potere, il potere di fare i nomi, spetta ai politici. A Pasolini e a quelli come lui spetta altro.

Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.

Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.

Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.

La strategia della tensione in Italia è colpa di un’aporia di fondo: nessuno tra politici e intellettuali può dire la verità sui colpevoli. Da un lato, l’intellettuale analizza la realtà e la spiega, anche sulla base delle proprie conoscenze spesso basate, non su prove concrete, ma che derivano da una fantasia e finzione; quindi non può cambiare le cose dicendo, nel caso specifico, i nomi dei colpevoli delle stragi, anche se ha un suo pensiero a riguardo, anche perché deve essere scevro da logiche politiche o autorità.

Ho sempre pensato, come qualsiasi persona normale, che dietro a chi scrive ci debba essere necessità di scrivere, libertà, autenticità, rischio. Pensare che ci debba essere qualcosa di sociale e di ufficiale che «fissi» l’autorevolezza di qualcuno, è un pensiero, appunto aberrante, dovuto evidentemente alla deformazione di chi non sappia più concepire verità al di fuori dell’autorità.

Dall’articolo “Nuove prospettive storiche. La Chiesa è inutile al potere”

Dall’altro, i politici sono corrotti dalla loro appartenenza al potere e non diranno mai la verità. Pasolini si dichiara pronto a ritirare la sia mozione di sfiducia solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi.

Nella forza comunicativa di tale articolo, preso come exemplum dei mille che ci potrebbero essere – come quello sull’aborto, tema scottante che il Corsaro affronta con profonda sagacia – possiamo ritrovare la grandezza di un intellettuale che ha fatto della parola un’arma di analisi fondamentale.

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