Social rating: da oriente a occidente

A Rongcheng, in Cina, da circa un anno la Repubblica Popolare Cinese ha dato il via ad una sperimentazione in stile orwelliano. Si tratta di un sistema di social rating civile dove i cittadini vengono dotati di un punteggio base di mille punti teso a controllare e regolare il loro comportamento. Si presenta, dunque, come uno stabilizzatore sociale. Ma come funziona?

Si tratta di un sistema di punizioni e ricompensa dove i punti possono essere persi o guadagnati a seconda delle azioni che si compiono. Ad esempio, se si prende una multa oppure si fa un ritardo in un pagamento si perdono punti ed essi possono essere recuperati tramite azioni positive, come svolgere gratuitamente lavori utili alla comunità, donare il sangue e cosi via.

I cittadini cinesi subiscono delle ricadute nella vita di tutti i giorni, infatti un punteggio toppo basso implicherà alcune conseguenze come il divieto di acquisto di biglietti per treni e autobus ad alta velocità o anche il divieto di soggiornare in hotel di lusso, oppure un rallentamento della connessione internet. Inoltre, il sistema a punti serve da riferimento nel Curriculum Vitae. Al contrario, i cittadini con un punteggio alto avranno sconti di vario tipo come quelli sulle bollette del riscaldamento oppure gli sarà facilitata la richiesta di prestiti poiché considerati più affidabili.

I punteggi di un individuo vengono calcolati secondo due basi, una oggettiva come ritardi nei pagamenti, denunce, ecc. e l’altra soggettiva che viene fornita direttamente da funzionari della pubblica amministrazione.

I dati vengono inoltre resi pubblici, consultabili quindi da tutta la popolazione. In questo modo si agisce direttamente sulla psicologia dell’individuo in modo da creare una sorta di orgoglio o anche di vergogna sociale; si può parlare dunque di un vero e proprio tentativo di condizionamento pavloviano.

Al momento l’esperimento è circoscritto alla sola zona di Rongcheng, ma il governo cinese vuole estendere il sistema a tutta la Cina e nel progetto risultano coinvolte anche le grandi aziende digitali come Alibaba, Baidu, Tencent Holdings e Wechat.

Sembra un problema di un mondo lontano e ambientato in uno scenario fantascientifico, ma da “questa parte del mondo” le cose non vanno per il meglio. Ogni attività svolta su internet è controllata e calcolata da algoritmi, basti pensare a quando si effettua una ricerca per comprare ad esempio un vestito e nei giorni successivi si vedranno apparire sulla propria bacheca social tutti capi e oggetti correlati a quel determinato indumento, magari anche conditi da sconti e quant’altro.

Le persone vengo dunque calcolate come meri consumatori a cui può piacere o meno un determinato articolo e questo “piacere” è dettato direttamente dalla persona che tramite i “like” esprime le sue preferenze.

Inoltre il sistema di valutazione, se pur non capillare e con altre funzioni rispetto a quello adottato dal governo cinese, è già nelle nostre vite. Pensiamo ai cosi detti “followers” del social network Instagram o anche a quelli di Tik Tok, che in questo periodo sta spopolando. Essi assumono una funzione di punteggio non dissimile da quello cinese, dopo una certa soglia di followers si viene infatti ricompensati su almeno tre piani; quello monetario poiché si riceve un compenso da parte dei brand che vengono sponsorizzati, quello personale oggettivo tramite un aumento della popolarità e quello personale soggettivo tramite una ricompensa emotiva dovuta al raggiungimento di un obbiettivo direttamente collegato agli altri due.

C’è anche qui, quindi, un sistema di valutazione che però assume connotazioni differenti, poiché i dati che vengono postati sui social sono di dominio pubblico e, inoltre, quando si accetta l’informativa sulla privacy di un sito, o semplicemente quando si usa un motore di ricerca, si cedono dei dati personali che vengono poi rivenduti legalmente ad altre aziende, un giro d’affari che si aggira intorno ai 203 miliardi di dollari e questo solo per quanto riguarda il commercio legale.

I dati, le informazioni, sono la vera moneta. Essi valgono più dei dollari, più dei Bitcoin e più di qualsiasi altra valuta reale o digitale che sia, “chi controlla i dati controlla il mondo” diceva un vecchio film. I nostri dati sono in mano a dei colossi privati e lo sono da anni e con il nostro consenso.

Come si vede, anche se si è lontani al momento da un sistema di controllo capillare come quello che si sta sperimentando in Cina, lo si è solo perché non è dichiarato e perché non ha risvolti immediati e gravi sulle vite di tutti i giorni, ma i nostri dati personali, quelli che immettiamo tutti i giorni in internet e che rientrano in quell’insieme chiamato Big data sono perennemente controllati e circoscritti da algoritmi di aziende private.

Quello che sta accadendo in Cina rientra in un progetto che ufficialmente è di protezione dell’individuo e di miglioramento della società, ma fino a che punto si può proteggere la società controllando in questo modo l’individuo? Fino a che punto in occidente, se anche di occidente si vuole parlare, ci si può dire liberi e si può sperare che quello che viene fatto con i nostri dati non vada poi ad implicare risvolti seri anche nella vita reale? Fino a che punto siamo disposti a cedere informazioni personali e ad accettare le condizioni a cui vengono cedute solo per sentirci al sicuro?  

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