Somalia: le guerre civili e gli interessi internazionali

Continuano da oltre 30 anni le guerre civili somale che fanno da specchio anche ai molteplici interessi nazionali e stranieri. Sulla scorta del Piano Mattei, un focus sugli inizi del conflitto e la sua evoluzione

I primi mesi del 2025 hanno visto intensificarsi nuovamente la cruenta guerra civile che da più di 30 anni ormai perseguita la Repubblica Federale di Somalia. Iniziata nel 1991, è uno dei conflitti più lunghi e complessi della storia africana contemporanea, con articolate dinamiche interne ed esterne e che coinvolge molteplici attori, con implicazioni regionali significative. Al-Shabaab, il gruppo jihadista legato ad al-Qaeda che ha guadagnato negli anni sempre più potere arrivando a controllare ampie porzioni del paese, in particolare nel sud e nel centro, mira a rovesciare il governo somalo attuale per instaurare uno Stato islamico, basato su un’interpretazione estremista della shari’a (la legge islamica) per estendere tale influenza in altre regioni, come in Kenya ed Uganda, con il risultato di aver creato instabilità nell’intera regione dell’Africa orientale. Se le forze somale, supportate da missioni internazionali, sono impegnate in operazioni per contrastare Al-Shabaab, quest’ultima,designata come organizzazione terroristica da molti Stati come, fra gli altri, Usa ed Unione Europea, oltre che da Organizzazioni internazionali (ad esempio l’Onu), combatte una guerra parallela per contrastarele forze straniere di supporto alla Somalia, come quelle dell’Unione Africana (ATMIS, ex AMISOM), ONG, missioni internazionali presenti sul territorio ed altri contingenti stranieri, rendendosi responsabile di numerosi attentati non solo contro civili ma anche nei confronti di funzionari governativi.

Come è nata la guerra in Somalia e le implicazioni geopolitiche

Il conflitto interno nella Repubblica Federale di Somalia ha radici profonde, risalenti al crollo del regime di Siad Barre nel 1991, che ha portato al collasso dello Stato ed all’emergere di fazioni e gruppi armati. Tra questi, al-Shabaab continua a rappresentare una minaccia significativa per la stabilità nazionale. Le forze somale, supportate da varie missioni internazionali, sono impegnate in operazioni per avversare il gruppo terroristico, ma i progressi sono ostacolati da sfide logistiche, politiche e finanziarie, dal momento che resta comunque difficile anche contrastare le varie tipologie di scontri che lo stesso mette in atto. Questi infatti si concretizzano non solo in assalti a postazioni militari o in offensive per conquistare territori ma anche (e specialmente a Mogadiscio) in attacchi suicidi, la tipica modalità terroristica attuata anche da Al Queida. Alla principale guerra civile messa in atto da al-Shabaab si affiancano guerriglie interne fra clan rivali e milizie locali, che combattono per il controllo del territorio, per le risorse naturali e per la supremazia politica. Questi scontri non sono sempre legati ad al-Shabaab, ma contribuiscono all’instabilità complessiva. Non solo: si combatte anche fra territori interni alla stessa Somalia, tra Somaliland e Puntland, entrambe regioni autoproclamate indipendenti, la prima separatista autoproclamata indipendente ma non riconosciuta internazionalmente mentre la seconda resta una regione autonoma del nord. Fra le due insistono conflitti intermittenti, specialmente nelle zone di SooleSanaag. Ancora, forti tensioni si verificano regolarmente nella zona di confine: fra Somalia e Somaliland: quest’ultima continua a proclamarsi indipendente mentre la Somaliala considera parte integrante del proprio territorio. Per rispondere all’accordo che Somaliland ha stipulato con l’Etiopia eludendo il governo somalo e che prevede un accesso etiope al mare attraverso Berbera, l’Egitto ha inviato in aiuto a quest’ultima, in risposta alle successive tensioni con l’Etiopia, un contingente di 10.000 soldati in Somalia, rafforzando così l’asse Somalia-Egitto in funzione anti-etiope.

Le implicazioni geopolitiche della guerra in Somalia sono dunque molteplici e toccano diversi livelli: regionale, continentale e globale. Il conflitto somalo è un punto caldo che coinvolge dinamiche di potere, rivalità strategiche e interessi economici su più livelli. Sono gli Usa i più attivi nel contrastare i leader jihadisti verso i quali usano droni e forze speciali: Washington considera infatti al-Shabaab una minaccia alla sicurezza globale e mantiene una presenza militare mirata in Somalia mentre la Cina, se pur non coinvolta militarmente, è interessata alla stabilità della regione per motivi legati alla Belt and Road Initiative e alla sicurezza dei suoi investimenti nel Corno d’Africa (vd. nel porto di Gibuti). Non solo: l’instabilità somala rappresenta una minaccia per la sicurezza marittima dell’intero Oceano Indiano. Le coste somale infatti, già colpite in passato dalla pirateria, restano un potenziale focolaio di insicurezza nei mari limitrofi con riflessi sui commerci verso l’Europa ed il resto del mondo: il controllo di queste acque è cruciale per le rotte tra Asia, Africa ed Europa. La Somalia ha una posizione strategica importante: si affaccia sull’Oceano Indiano e controlla parte del Golfo di Aden, un tratto fondamentale per il commercio marittimo globale. Le sue coste sono vicine allo Stretto di Bab el-Mandeb, porta d’accesso al Canale di Suez, da cui passa circa il 12% del commercio mondiale.

Il conflitto in Somalia è diventato un campo di manovra geopolitico per l’Egitto, che sfrutta la crisi per contrastare l’influenza etiope, (rispetto alla disputa sulla Grande Diga del Rinascimento Etiope (GERD) sul Nilo Azzurro). Anche Ankara è un attore molto attivo in Somalia: ha costruito ospedali, scuole, moschee e la più grande base militare turca all’estero, a Mogadiscio. La Turchia cerca di espandere la sua influenza nel mondo musulmano africano, facendo leva su aiuti umanitari e cooperazione militare.

La guerra in Somalia è dunque molto più di un conflitto interno. È un puzzle strategico dove si intrecciano variabili ed interessi geostrategici fondamentali a livello mondiale.

La presenza internazionale

Si combatte da anni in Somalia e da anni si grida alla crisi umanitaria che coinvolge ormai praticamente l’intera popolazione. Non si parla di ripristinare uno status quo, ma di una popolazione che muore per malnutrizione, con un’altissima percentuale di morte infantile per carenza di acqua e cibo. Il conflitto ha causato un pesante peggioramento delle condizioni di vita in Somalia: nel 2025, circa 6 milioni di persone – quasi un terzo della popolazione somala – necessitano di assistenza urgente. Oltre ai conflitti interni, la popolazione deve fare i conti con gli eventi climatici tipici di quella regione, come siccità e inondazioni, che ostacolano il rifornimento di cibo e acqua, distruggono le infrastrutture provocando lo sfollamento di intere comunità. Sono molte le Ong presenti sul territorio: l’Ue ad esempio, è coinvolta tramite missioni come EUTM Somalia (addestramento militare) e l’Operazione Atalanta focalizzata sulla sicurezza marittima e sul rafforzamento delle capacità delle forze somale (contro la pirateria) mentre l’Unione Africana ha avviato la missione AUSSOM (African Union Support and Stabilization Mission in Somalia) nel 2025, sostituendo la precedente ATMIS. L’obiettivo di questa missione è fornire supporto alle forze somale nella lotta contro al-Shabaab, con un contingente autorizzato di oltre 12.000 unità.

Prospettive future

La situazione in Somalia rimane instabile, con evoluzioni circoscritte nella lotta contro al-Shabaab e sfide significative nel consolidamento della pace. Se nel dicembre 2024 Somalia ed Etiopia hanno firmato la Dichiarazione di Ankara, mediata dalla Turchia, diretta a dirimere le controversie in particolare rispetto allo status del Somaliland e sull’accesso dell’Etiopia al Mar Rosso, riuscendo a normalizzare le relazioni bilaterali, tutte le concause interne ed esterne somale continuano a rappresentare una minaccia significativa per la stabilità dell’intero continente africano, portandosi dietro implicazioni politiche, economiche, sociali, territoriali difficilmente dipanabili. A ciò si somma la pesante crisi umanitaria da affrontare, in un paese allo stremo che andrebbe supportato dal profondo verso una emancipazione che vada al di là di logiche di ricostruzione.  Da parte del governo italiano, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha ribadito l’impegno del nostro Paese per l’attuazione del Piano Mattei, d’accordo con i tentativi perpetrati dal presidente Hassan Sheikh Mohamud di lotta al terrorismo, freno alla pirateria con garanzia delle coste ed investimenti di imprenditori ed industriali esteri, al fine di evitare la diaspora della popolazione (successiva all’inasprimento della guerra civile) cercando piuttosto di creare opportunità di lavoro.

Gli sforzi internazionali dunque continuano, ma la risoluzione del conflitto dipenderà da una combinazione di interventi militari, supporto umanitario e iniziative diplomatiche efficaci. ​ Ma in questo continente, da sempre, i progressi sono ostacolati da sfide logistiche, politiche e finanziarie difficilmente imprescindibili. ​

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