Storia e verità

Come ogni 10 febbraio ieri è stata celebrata la giornata del ricordo in memoria dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata.


E come ogni anno, invece di rappresentare un momento di riflessione critica e di commemorazione, il 10 febbraio ha lasciato spazio, soprattutto sui social, a inquietanti parallelismi con la Shoah e invettive anticomuniste da una parte, e alla retorica del nesso causale dall’altra (dove si tenta di giustificare il massacro legandolo alle politiche fasciste durante gli anni dell’occupazione).

La verità storica


In entrambe i casi le parti non si fanno troppi problemi a scomodare il concetto di verità, accusando l’avversario di mancanza di conoscenza storica, faziosità o partigianeria.
Negli ultimi anni il riferimento alla verità storica è diventato un’arma retorica nelle mani di politici, opinionisti di vario genere e giornalisti, passando per la sterminata platea dei social, dove puntualmente viene chiamata in causa nei post o nei commenti che ricordano o commemorano un evento.


Il pericolo è che si spacci per verità storica una narrazione che in realtà è smaccatamente politica. Non è un caso che raramente sentiamo parlare di verità storica da uno storico di professione.


Il concetto di verità in ambito storiografico infiamma infatti da un secolo il confronto teorico tra orientamenti e paradigmi diversi.
Quando si affronta il tema della verità storica si entra quindi in un terreno paludoso dove gli stessi professionisti della disciplina, gli storici, si muovono con estrema prudenza.

Fatti veri, narrazioni parziali


È chiaro che i fatti storici sono delle verità quando la quantità di fonti che li riguarda (e la loro verificabilità) è accertata. Non c’è revisionismo o negazionismo che tenga di fronte all’evidenza delle fonti. Ma la storia non è solamente un insieme di fatti né un grigio susseguirsi di eventi.

I fatti sono solo la materia grezza della storia e a dare loro forma e sostanza è la storiografia, che si preoccupa di narrarli e, nel migliore dei casi, comprenderli e interpretarli attraverso dei modelli.


Lo studioso del passato non si limita alla ricerca delle fonti per accertare/smentire l’esistenza di un fatto, ma si spinge nella complessa impresa di spiegare il mondo al mondo, come ci insegna lo storico francese Lucien Febvre. E nel tentativo di interpretare e dare forma a questa materia che è la storia, si trova nel pieno di un mare in tempesta (il susseguirsi degli eventi) con una zattera (la sua teoria) che gli permette di rimanere a galla ma che non gli assicura un’infallibile navigazione nel mare in burrasca.


Pur nella sua fallibilità di scienziato sociale, è allo storico che dobbiamo guardare per avere un quadro chiaro degli avvenimenti del passato.
Se si continua a saltare questo passaggio la storia rischia di diventare uno strumento di legittimazione o delegittimazione politica, perdendo così il proprio ruolo e la propria dignità di disciplina per diventare un feticcio da utilizzare in chiave retorica nei giorni delle commemorazioni. Un fatto che non rende certo onore alle vittime.

Lo storico non giudica, non condanna, non manipola le memorie e non ne fa un uso politico. Forse è meno coinvolgente del testimone che fa leva sulla memoria personale (quindi parziale e corruttibile nel tempo). Magari possiede meno appeal del leader politico che smuove i sentimenti del pubblico durante solenni commemorazioni, ma rimane la voce più autorevole per affrontare la complessità di un reale nebuloso quale è quello della storia. Con buona pace dei giornalisti che si improvvisano storici infallibili, dei politici revisionisti in cerca di elettori e degli storici da tastiera che popolano i social.

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