14 Giugno 1998
Sta per iniziare l’estate, ma contemporaneamente sta per arrivare al termine qualcos’altro.
Salt Lake City, Utah, è una delle giornate più belle e tristi che il basket abbia mai vissuto. Sta andando in onda Gara-6 delle Finals NBA, potrebbe essere l’ultima partita di quello che è stato indubbiamente il giocatore più forte di tutti i tempi. La partita è tra Chicago Bulls e Utah Jazz, si affrontano in finale per il secondo anno consecutivo. Chicago avanti 3-2, se Utah vincesse si andrebbe a Gara-7, con l’incertezza del caso.
La partita è tirata, le squadre vanno continuamente punto a punto. Stockton e Malone da una parte, Jordan, Pippen e Rodman dall’altra. Si sente nell’aria che qualcosa sta per finire, siamo alla fine di un ciclo.
Manca poco meno di un minuto, possesso per Utah avanti di uno, Stockton va da Malone sul fondo del campo. Dietro di lui però c’è qualcuno che non ne vuole sapere di perdere quella partita. Picchia forte sulla palla nelle mani del lungo e la ruba.
Adesso mancano poco meno di trenta secondi. Michael riparte palla in mano verso il canestro avversario, con tutta la calma del mondo. Avrebbe mille linee di passaggio, ma sa che quella partita la deve decidere lui.
Finta letteralmente il difensore fuori dalle scarpe, arresto, tiro. Ed è qui che in un millisecondo ci ripassa davanti tutta quella che è stata la carriera di Michael Jordan.
Avesse seguito lo sport di famiglia, il baseball, oggi probabilmente non parleremmo nemmeno di lui.
Fortunatamente però papà James e mamma Dolores gli hanno permesso di diventare quello che poi alla fine è stato. Il papà lo seguirà sempre, sarà il suo migliore amico, il suo psicologo e il suo agente. Cercherà di sistemare tutti i problemi nella vita di Michael. Per questo Quando muore nel 1993 il figlio semplicemente abbandonerà il basket e la sua maglia, per esaudire quello che era il desiderio del padre. Inizia a giocare a baseball, con il numero 45, per una squadra delle Minors.
A lungo andare però si rese conto che non era quella la sua vita, ritornò prima ad allenarsi con i Bulls, fino poi a ritornare ufficialmente a marzo 1995. Curiosa fu la scelta del numero. Da piccolo pensava che il fratello più grande fosse il preferito di casa, lui portava il 45 e Mike pensava di valerne la metà, per questo sin da quei tempi scelse il 23. Ma quando il padre morì voleva che quella fosse l’ultima maglietta con cui lui lo avesse visto, quindi al suo ritorno scelse la 45. Durò una partita poi riprese il vecchio numero beccandosi anche una multa.
Una volta tornato, dopo aver vinto già tre titoli prima di quel brutto accaduto, con altrettanti MVP della serie, il ruolino non cambia. Vincono altri due titoli, in attesa di sapere come è andato a finire il tiro di prima.
Il 97, l’anno precedente, a Utah è ancora più impressionante. Giocavano sempre a Salt Lake City, Hotel fuori città, notte profonda. MJ ha fame e vuole solo ed esclusivamente pizza. In qualche modo lo staff riesce a prenderne in quantità. Le mangia tutte. Dopo qualche ora, inizia a sentirsi male, qualcuno ha saputo a chi erano destinate le pizze. MIchael è uno straccio, viene messo in dubbio per la partita del giorno dopo. 38 punti segnati con una padronanza della propria condizione fisica che lo fa sembrare arrivato da un altro pianeta, è disumano. Vincono alla fine 4-2 queste Finals, ovviamente MVP.
Si è sempre posto dei limiti e ha cercato di superarli, perché all’inizio gli sono serviti per diventare un giocatore. Ma dopo, quando poteva permettersi di non farlo, ha iniziato a cercare delle sfide in qualsiasi cosa, perché era il mezzo attraverso cui si divertiva a giocare.
Ha vinto 2 Olimpiadi, 5 titoli MVP, è stato 10 volte miglior marcatore dell’anno, Rookie of the year al primo anno in NBA, 14 volte All-Star. Questi sono solo dei numeri che non bastano a delineare che fenomeno sportivo e mediatico sia stato.
Torniamo al tiro. Ha appena lasciato andare un macigno, in mezzo alla tribuna del Delta Center c’è qualcuno che già sta facendo il numero 6 con le mani.
Il tiro entra, e che ve lo dico a fare, per farlo c’è Flavio Tranquillo che in piena estasi esclama il suo nome come fosse una divinità: “Michael Jeffrey Jordaaaaaaan”.
È il tripudio, è la fine di un’era che ha segnato tutti, anche se non se ne stavano rendendo conto.
La cosa più emblematica sarà quella ripetizione del 6 nella foto in cui sta per entrare il tiro.
(a questi vanno aggiunti, le 6 dita di Jordan dopo il tiro e il titolo numero 6 per Chicago)
Il destino quando vuole sceglie le strade e le fa incrociare nel modo giusto, poi ci ha pensato Michael a sottoscrivere il tutto.