Tregua Hamas – Israele: solo ora ci accorgiamo che è a rischio? 

Non era difficilmente prevedibile – anzi, quasi scontato – che la pace in Medio Oriente fosse sul filo di un rasoio. Probabilmente, come andremo ad illustrare adesso, non è mai davvero cominciata. Già da subito accolta come un trionfo, cede di fronte alla mancanza di credibilità degli attori principali, il Presidente Usa Trump e il Primo Ministro isralieno Netanyahu, che hanno dimostrato nel corso delle conferenze stampa quanto sia facile scrivere condizioni di pace senza tener conto di diversi fattori. 

Storicamente, una pace dovrebbe raggiungersi mediante la firma di un accordo tra le principali parti in causa. Qui, sulla falsa riga di quanto già avvenuto in Medio Oriente all’inizio di quest’anno (cioè una finta tregua con condizioni simili a quelle di adesso), non era presente in sede di accordo una delegazione per quanto riguarda Hamas, ma le due figure che hanno permesso che il massacro dei civili palestinesi continuasse. Netanyahu per mezzo della sua leadership, Trump per mezzo delle armi. Un patto di ferro che diventa un vanto di fronte a tutto il globo, quando Trump scherza e commenta ironizzando le forniture di armi che invia a Netanyahu, aggiungendo – paradossale – che le avesse utilizzate per bene. 

Che ruolo gioca Trump? Decisivo o solo egocentrico? Concentrandoci sui risultati concreti, molto poco decisivo. Il vanto di aver concluso delle guerre non rispecchia la realtà dei fatti, dato che sul fronte tra Russia Ucraina la situazione non è affatto migliorata. L’esercito russo, per quanto già provato dai combattimenti, continua lentamente ad avanzare. Cedere una parte dei territori – e di recente si parla del Donetsk – potrebbe condurre ad un dialogo più produttivo. In merito a questa questione, Trump appare bipolare e poco deciso: cambia idea frequentemente in merito alla possibilità che l’Ucraina ceda territori, salvo poi parlare anche di missili a lungo raggio o di riconquista di terreno ad opera di Kiev. 

La guerra in Medio Oriente? Non si è mai fermata del tutto. Stamattina, le agenzie stampa riportano che gli inviati Usa Witkoff e Kushner hanno pressato il governo israeliano affinché non sia sabotato l’accordo. Questione complicata, dato che Netanyahu risente della pressione interna dei ministri di ultradestra Smotrich e Ben Gvir, i quali minacciano di far saltare il governo perché non condividono il piano di pace. 

L’obiettivo? Lo riporta senza troppe maschere Ben Gvir, affermando che “ora che sono stati restituiti gli ostaggi, dobbiamo riaprire le porte dell’inferno per Gaza”. Pressione decisiva a dare un colpo di grazia al già debolissimo governo Netanyahu, che è sostenuto da una coalizione di destra ma con differenti visioni politiche. Likud, il partito di Netanyahu, detiene circa 31 seggi su 120, con il rischio che i ministri più estremisti possano farlo cadere. 

Una fine politica già annunciata anche dai processi che il Primo Ministro ha a suo carico, puntualmente rimandati con il pretesto dei problemi di salute. Sugli stessi processi non poteva non avere una soluzione Trump, che ha infatti proposto la grazia presidenziale. Seguendo questo filo, è necessario comprendere come questa guerra sia esistenziale per la figura di Netanyahu e per Hamas stessa. 

Per quali ragioni? La detenzione degli ostaggi a carico di Hamas diventa la principale pedine di scambio, così come i tunnel e le armi. Tutto ciò è confermato dalle dichiarazioni dei miliziani di Hamas, i quali affermano di non volere un disarmo totale e di avere bisogno di più tempo. La presenza di Hamas è un rischio per l’intera striscia di Gaza e per il territorio palestinese, come hanno evidenziato le recenti esecuzioni in pubblica piazza di palestinesi accusati di aver collaborato con il governo israeliano. Dello stesso avviso Abu Mazen, Presidente dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese), che in un’intervista al Corriere mette in guardia dal pericolo di Hamas e ritiene che debba consegnare le armi, proponendosi al tempo stesso come autorità sovrana nel territorio palestinese. 

Di fronte agli inviati Usa che pressano il governo israelieno affinché “la guerra non ricominci”, dovremmo dire che qui c’è un fusorario di oltre 7 ore rispetto agli Stati Uniti e che, nel caso in cui non se ne fossero ancora accorti, la guerra non è mai completamente finita. Continua a colpi di proiettili e a suon di bombe. L’ultima portata del menù è una scaricata di 153 tonnellate di bombe da parte dello Stato israeliano.

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