Verba manent: abbiate il coraggio di applaudire alla diplomazia americana

Forse, stavolta, la parola “pace” ha un significato concreto anche in Medio Oriente. Dopo due anni di sangue, macerie e civili straziati, con oltre sessantamila morti palestinesi e il ricordo indelebile dei 1200 israeliani massacrati il 7 ottobre 2023 e altri presi come ostaggi, un piano di pace sembra finalmente prendere forma.

Da due anni il mondo osserva, impotente, l’ennesimo ciclo di vendetta. Gaza è diventata una ferita aperta che il mondo ha smesso persino di guardare, abituato al dolore come a un rumore di fondo. Ma questa volta, a smuovere le sabbie del deserto, non è stata un’alleanza araba né una risoluzione dell’ONU destinata a restare lettera morta. È stata, ancora una volta, la diplomazia americana. Gli Stati Uniti, gli stessi che molti amano odiare con riflesso pavloviano, hanno riportato al tavolo due popoli che da generazioni non si parlano se non attraverso i razzi. Hanno esercitato pressione su Israele, convinto gli stati arabi moderati a sostenere una tregua e garantito una presenza militare dissuasiva nel Mediterraneo per impedire nuove escalation. Washington, che da ottant’anni è l’unico vero kingmaker della politica internazionale, ha dimostrato di saper ancora dettare l’agenda del mondo. Non per bontà d’animo, sia chiaro: la Casa Bianca sa che ogni accordo di pace rafforza il suo ruolo globale e ricostruisce credibilità dopo anni di ritirate e ambiguità. Ma la differenza, rispetto a tanti attori minori del panorama globale, è che gli americano ci sanno fare: trasformare la diplomazia in potere concreto, non in conferenze stampa (come accade dalle parti di Bruxelles).

È anche grazie a loro che oggi si parla di cessate il fuoco, corridoi umanitari e riconoscimento reciproco. È un equilibrio precario, certo, ma più solido di molti precedenti. L’America ha compreso che la pace, in Medio Oriente, non si impone, ma si costruisce un centimetro alla volta, tra pressioni economiche, mediazioni silenziose e la consapevolezza che nessuno deve uscire umiliato. Eppure, da queste parti, per bocca di una certa sinistra ideologica, non sentiremo mai un “God bless America”. Per loro, la pace è accettabile solo se non porta la firma americana. Gli stessi che da anni si riempiono la bocca con parole come “dialogo”, “solidarietà”, “diritti”, oggi tacciono o sminuiscono. Come se l’origine del risultato contasse più del risultato stesso. In fondo, per molti pacifisti nostrani, la pace è utile solo se serve a far propaganda interna: se permette di puntare il dito contro Israele, o contro l’Occidente, o contro “l’imperialismo americano”. Finanche contro i partiti nazionali meno simpatici. Quando invece la pace arriva davvero – e arriva grazie agli americani – cala un silenzio imbarazzato.

E allora la domanda è semplice: cosa conta davvero? La bandiera che sventola sul documento, o il fatto che i bambini israeliani e palestinesi possano tornare a una lenta, per alcuni comunque faticosa, quotidianità? Se la pace ha un prezzo, è anche quello di riconoscere chi la rende possibile. Non serve idolatrare nessuno, ma serve onestà intellettuale: se la diplomazia americana riesce dove altri falliscono da decenni, è perché ha visione, forza e capacità di negoziare nel mondo reale, non nei comizi.

Forse non ci sarà un lieto fine, ma almeno c’è un inizio diverso. E in un Medio Oriente che brucia da generazioni, non è poco.

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