Xi, Putin e il vertice di Busan: tra intese commerciali e marginalità europea

A Busa, tregue temporanee ed accordi commerciali disegnano un nuovo modo di fare diplomazia, mentre l’Europa resta a guardare

Non si vedevano dal 2019 Donald Trump e Xi Jinping che stanotte – 29 ottobre – si sono riuniti a porte chiuse a Busan, in Corea del Sud in un vertice durato circa novanta minuti. L’incontro non ha prodotto accordi formali ma ha permesso di riaprire un dialogo diretto tra le due maggiori potenze mondiali. Le delegazioni hanno dibattuto di dazi, esportazioni tecnologiche e questioni commerciali. I temi più sensibili — Taiwan, semiconduttori, sicurezza nel Pacifico — sono rimasti indiscussi. Trump si è limitato a dire che: “Taiwan non è stata discussa”.

Nessuna foto congiunta inoltre, nessun documento firmato: soltanto il tentativo, da parte di Washington e Pechino, di mettere un freno alla guerra commerciale e lasciare intravedere la possibilità – ancora, per la verità, incerta – di un dialogo fattibile. L’unica dichiarazione ufficiale è stata quella di Trump che, dopo l’incontro, ha parlato ai giornalisti a bordo dell’Air Force One: “Ci sarà una de-escalation nello scontro commerciale con la Cina. Presto firmeremo un accordo che durerà almeno un anno”.

Secondo fonti di Reuters e Washington Post, le due delegazioni hanno concordato una riduzione parziale dei dazi americani sui prodotti cinesi — dal 55 al 45 per cento — e la sospensione per un anno delle restrizioni cinesi sull’export di terre rare, materiali indispensabili per l’industria elettronica e automobilistica mondiale. La Cina si sarebbe inoltre impegnata a rafforzare i controlli sui componenti chimici impiegati nella produzione di fentanyl – che sta fortemente preoccupando il governo americano – in cambio di un alleggerimento dei dazi nel settore farmaceutico, e ad aumentare le importazioni di soia statunitense, gesto che riequilibra in parte la bilancia commerciale. Sono intese tecniche, di natura tattica, che alleggeriscono la pressione reciproca ma che in realtà non modificano la competizione di fondo.

Il vertice di Busan è arrivato in un momento di tensione crescente. Pochi giorni prima, Trump aveva annunciato il ritorno ai “test nucleari” — poi ridimensionati come test missilistici — mentre Xi Jinping, alle prese con un’economia in rallentamento e un settore immobiliare in crisi, ha scelto di mostrarsi come garante di stabilità e pragmatismo. Entrambi avevano bisogno dell’incontro: Trump per rafforzare la propria immagine internazionale dopo una serie di crisi regionali, Xi per presentarsi alla comunità globale come un leader responsabile, capace di gestire l’imprevedibilità del presidente americano. La decisione di limitarsi a un accordo parziale riflette la volontà di evitare rotture e di guadagnare tempo.

Washington e Pechino sanno che non possono permettersi un conflitto economico aperto, ma neppure un compromesso che appaia come una concessione. Il risultato di Busan è dunque, di fatto, un equilibrio provvisorio: gli Stati Uniti ottengono un segnale di stabilità da spendere in patria e nei mercati; la Cina ottiene la sospensione delle pressioni più immediate sul fronte commerciale. Nessuno dei due leader torna a casa con una vittoria evidente, ma entrambi evitano una sconfitta. Questo equilibrio si regge sulla consapevolezza, sicuramente condivisa, che la rivalità è destinata a durare, ma può essere gestita se mantenuta entro confini prevedibili, specialmente passando per conciliazioni commerciali.

Il riflesso europeo

In questa dinamica, l’Europa resta spettatrice e parte in causa allo stesso tempo. La sospensione delle restrizioni sulle terre rare evita un danno diretto per l’industria europea — che dipende in larga misura dalle forniture cinesi — ma conferma l’esclusione del Vecchio Continente dai tavoli decisionali principali. Come ha spiegato il politologo Gavin Wilde, “L’Europa è il terzo sgabello in un mondo a tre gambe, ma le altre due non vogliono mantenere l’ordine mondiale”. È una definizione che sintetizza perfettamente la condizione attuale: gli Stati Uniti guardano alla sicurezza economica interna, la Cina alle sue priorità industriali, mentre l’Unione Europea cerca una via di mezzo che non riesce ancora a trasformarsi in strategia. Se prima dell’incontro fra i due le aspettative erano alte – anche se evidentemente incerte, data l’imprevedibilità del governo americano, peculiarità insita nella gestione trumpiana – nessun analista ha considerato l’eventuale intesa di Busan come una soluzione alla competizione strategica tra Washington e Pechino. Anche tra i sostenitori più convinti di Donald Trump prevale la consapevolezza che si tratti di una tregua temporanea, non di un punto di svolta. Diverso per Pechino, invece, dove l’incontro viene letto come un’occasione per mostrare affidabilità e responsabilità: la Cina vuole apparire come la potenza capace di gestire l’imprevedibilità americana e di garantire, almeno in apparenza, una forma di stabilità globale. Ed inoltre, diciamocelo, ci tiene a mostrarsi ora – senza dirlo apertamente però – di fronte agli Stati Uniti in discontinuità con la linea del Cremlino, aprendosi dunque al dialogo, con margini di negoziazione con l’occidente più stabili e capace, certamente dietro concessioni interessanti, di offrire una direzione politica chiara e quasi supportiva.

Tornando all’Europa: l’accordo dunque, imperfetto e incompleto, diventa la migliore opzione possibile per mantenere l’equilibrio e per evitare ripercussioni gravi sulle catene di valore europee, già sotto pressione per la guerra in Ucraina e la competizione tecnologica. Successivamente al vertice, la sensazione condivisa nelle capitali europee è che l’epoca degli accordi ampi e duraturi sia finita. Il nuovo ordine mondiale si regge su intese circoscritte, temporanee, più tattiche che strategiche: soluzioni parziali per guadagnare tempo, più che per risolvere i conflitti di fondo, tese ad ammorbidire gli animi, a testare la resilienza dell’altro per concedersi spazi di manovra in cambio di. Per Bruxelles — e di riflesso per Roma — l’intesa tra Trump e Xi rappresenta dunque il massimo risultato ottenibile.

L’Unione Europea potrà almeno – al momento – evitare nuovi scossoni economici, mentre si prepara ad affrontare una sfida più complessa: definire una relazione autonoma e strutturata con Pechino, in grado di tutelare gli interessi europei senza compromettere l’alleanza con Washington. Necessaria visto il ruolo defilato che sta ultimamente subendo. La domanda è se riuscirà ad uscire dall’attuale stasi nel paradosso che sta vivendo: una Cina che “rivede” gli Stati Uniti con un Trump bendisposto ed uno Xi che intende uscire dall’isolamento approfittando dell’atteggiamento duro americano verso la Russia e dell’interesse di Trump di chiudere la guerra in Ucraina. Con annessi e connessi.

A latere del vertice, l’Italia condivide questa incertezza. Dopo l’uscita dal memorandum della Nuova Via della Seta, Roma tenta di mantenere un equilibrio pragmatico: rimanere allineata a Washington, ma senza chiudere completamente i canali economici con Pechino.
Il governo ha definito “positivo” l’esito del vertice, sottolineando come ogni segnale di distensione possa contribuire a mantenere stabili le catene di fornitura globali, da cui dipendono ampi settori dell’economia nazionale.

Riflessioni

Il vertice non ha ridisegnato i rapporti di forza, ma ha interrotto la spirale di escalation commerciale che minacciava di colpire anche l’Europa, in un sistema internazionale frammentato, dove ogni potenza agisce su scala regionale e in base ai propri interessi immediati. Specialmente considerando le due guerre in corso, anche un accordo parziale diventa un risultato. Non si tratta dunque di un ritorno alla cooperazione, ma di una gestione controllata dell’antagonismo. La logica non è quella della pace ad ogni costo, ma della stabilità momentanea: una tregua in attesa di capire se, e come, il sistema globale potrà trovare un nuovo equilibrio. Se infatti è vero che Trump ama i vertici politici, gli interessa trattare con altre grandi potenze ed è particolarmente concentrato sul commercio, il risultato del vertice con Xi è stato, nella sua imprevedibilità, imprevisto. Busan segna la conferma di un nuovo modo di intendere la diplomazia: meno basato su grandi trattati, più su accordi limitati nel tempo.

Trump ha peraltro annunciato che si recherà in Cina ad aprile, segnale che il dialogo continuerà. Pechino ha parlato di “colloquio costruttivo”, insistendo sulla necessità di “mantenere aperti i canali di comunicazione” e “prevenire incomprensioni”.

Il faccia a faccia di Busan conserva dunque un importante valore simbolico. Conferma sempre più il ritorno di Trump sulla scena globale, deciso com’è a ridisegnare il ruolo americano nel mondo, e conferma la volontà di Xi Jinping di mantenere viva la propria immagine di leader stabile e lungimirante. Due ambizioni diverse, ma intrecciate: entrambe influenzano direttamente l’assetto del sistema internazionale e, inevitabilmente, il destino dell’Europa. Perché, insieme a Stati Uniti, Cina, India e Giappone, l’Unione Europea resta uno dei pochi poli globali reali, anche se profondamente diverso per storia, metodo e capacità di proiezione. Le scelte di Washington e Pechino ridisegnano equilibri che toccano da vicino l’Italia e l’intero continente: ogni aggiustamento commerciale o politico tra le due superpotenze si riflette sulla crescita, sulle esportazioni, sulla sicurezza energetica. D’altro canto, in questo nuovo scenario multipolare, nessuna decisione presa tra Stati Uniti e Cina resta confinata all’Asia o al Pacifico.

Restano, in ogni caso, aperti tutti gli altri nodi: la guerra in Ucraina, la competizione tecnologica, la questione di Taiwan, le catene del valore globali. Il vertice di Busan non li ha risolti, ma li ha temporaneamente contenuti. Ma in un’epoca segnata da crisi simultanee — economiche, energetiche e di sicurezza — anche un momento di stasi può essere considerato un risultato.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here