L’apertura di un secondo fronte tra Israele e Iran segna un punto di non ritorno. Non è più solo Gaza, non è più solo Hezbollah. Ora l’orizzonte della guerra si allarga fino a Teheran, e con esso si moltiplica il rischio di uno scontro globale. Perché una guerra diretta con l’Iran non è un conflitto qualsiasi: è l’innesco di una dinamica a blocchi che potrebbe ricalcare i peggiori schemi della Guerra Fredda, ma con l’Islam sciita contrapposto a un Occidente che rischia di compattarsi su posizioni irriflessive, guidato dalla paura più che dalla strategia.
La catastrofe della guerra non risparmia nessuno. Non ci sono vincitori. Solo vite spezzate, città distrutte, economie devastate e società disorientate. Ogni nuovo missile, ogni nuova rappresaglia, ci allontana da qualunque ipotesi di equilibrio e ci avvicina sempre più a un collasso collettivo, in cui le ragioni si mescolano alle colpe, e i diritti umani diventano moneta geopolitica.
A pagare il prezzo, come sempre, sono i civili. E mentre le diplomazie si muovono al rallentatore e le cancellerie faticano a prendere posizioni nette, resta un’assenza assordante: quella della protesta interna israeliana.
Dov’è la voce del popolo di Israele? Dov’è l’indignazione verso un premier, Benjamin Netanyahu, che in due anni e mezzo ha aperto, o riaperto, due fronti letali, uno a sud e ora uno a est, spingendo il Paese verso un isolamento crescente e una spirale di violenza potenzialmente irreversibile?
Non servono altri generali. Serve una mobilitazione popolare. Serve che il mondo veda, chiaro e netto, che non tutto Israele è Netanyahu, e che molti israeliani vogliono la pace, non la guerra. Che condannano Hamas e Hezbollah, ma non accettano che la risposta sia una politica estera incendiaria che moltiplica i fronti e cancella ogni margine di diplomazia.
Il silenzio, in questo caso, rischia di diventare complicità. Ma una rivolta civile, una mobilitazione trasversale, una presa di distanza netta e visibile dalle scelte del governo, restituirebbe dignità a una popolazione che oggi viene associata a scelte belliche estreme e insensate.
Perché un popolo che contesta la guerra è un popolo che difende la propria umanità. E oggi, davanti a questo nuovo fronte, serve umanità più che mai. Serve la voce dei cittadini per fermare la mano dei leader. Serve dire basta prima che sia troppo tardi.