Fabrizio Corona, un demerito Borsellino della giustizia

Se in un famoso saggio intitolato Homo Sacer qualche anno fa Giorgio Agamben discuteva del sintagma che unisce la modernità alla civiltà come congiunzione esemplare della giustificazione democratica dell’Occidente, dovrebbe essere anche vera per noi da un lato, la possibilità di aspettarci oggi una demistificazione della nostra civiltà quando le armi della giustificazione non sono più della società ma della socialità.

La giustizia e la democrazia, è risaputo, sono sempre state una antinomia nello statuto politico postmoderno, ma avrebbero smesso di esserlo formalmente con le “magnae chartae” istituite agli albori della reagente composizione europea. 

Ma davvero oggi entrambe sono estromesse da questa dialettica oppositiva? 

La risposta non è soltanto “no”, ma vuole anche precisare quanto sia distante da noi ormai il concetto di antinomia, e quanto nel 2025 non sia più essa il problema all’organicità giuridica della democrazia, ma veramente lo sia il fenomeno di “palinodia”.

Ritrattare, riversare e rigurgitare sono le tre principali soluzioni che la palinodia adotta verso la complessità spinosa della dilemmatica verità. A ricercare la verità è stata commissionata la nostra dea bendata “giustizia” ma soltanto nel confine dichiarato della democrazia. Dunque chi non riconosce il vero senso della giustizia non conosce nè il valore della verità nè il colore della democrazia. 

L’uomo sacro è colui che è interdetto nella religione del diritto e della legge. E codesta è la nostra religione da quando ci siamo concepiti come cittadini, sia attraverso la cellula familiare, sia grazie alla cultura nazionale, sia a favore della pace europea continentale. 

Le vestigia di quell’uomo sacro sarebbero state duplicemente riconosciute dopo la strage di Capaci e dopo quella in Via D’Amelio nel 1992. Hanno continuato da allora a sollevare erto il gonfalone della magistratura come sacerdozio della giustizia e come officio massimo della democrazia. 

Ma anche i gonfaloni, come quello della Trinità di Raffaello a Città di Castello, arrivano a logorarsi della loro superficie pittorica diventando aniconici, senza che qualcuno abbia il coraggio morale di restaurarli. 

E di un intervento di restauro imponente ci accorgiamo di quanto bisogno ce ne sarebbe adesso, almeno in Italia, di fronte ad associazioni tematiche che eludono, in sedi di ultima formazione civile quali gli esami di maturità, ogni forma di coscienza civica e critica del nostro pensiero democratico.

Durante uno degli esami sostenuti per la prova di italiano, un maturando scegliendo la traccia C1 sull’attualità che vedeva un brano estratto da “I giovani, la mia speranza” pubblicato postumo di Paolo Borsellino, ha esposto l’analogia tra il martire magistrato e il paparazzo vip Fabrizio Corona. 

Una scelta che mostrerebbe tanta analogia quanta opportunità di ritrarre a noi la distorsione culturale a cui la presente generazione giovanile, quella che dovrebbe maturare al suo ultimo anno del ciclo scolastico, va incontro sempre più succube della prevaricazione dell’icona modale sulla parola morale. 

Associare in termini analogici per similitudine l’opera di Paolo Borsellino alla figura di Fabrizio Corona, non è in sé errato, ma sospetto della direzione che la nostra politica sta prendendo a seguito della decadenza culturale che stiamo passivamente ricevendo senza spazio di respiro intellettuale.

La riduzione della smisurata educazione valoriale del magistrato che sperava di lasciare un seme che avrebbe germogliato più racemi di cognitio iusta nel terreno dei posteri, non rende che demerito non a Fabrizio Corona invocato ad attuale paladino della giustizia, ma al sacrificio di un uomo che è stato tagliato, con oggi, due volte dal suo stesso tempo. Il demerito della nostra democrazia è il merito della nostra ingiustizia.

Articolo precedenteProteste a Los Angeles: una lettura critica delle dinamiche interne e internazionali
Mauro Di Ruvo
2000, Bari, Critico d’arte, classicista e medievista. Redattore di Politica interna. Attualmente si occupa di Etruscologia e Diritto Romano a Perugia, dove conduce indagini sperimentali in Archeologia Classica. Si è occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni), e curatore della recensione al libro Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo di Gabriella Izzi Benedetti, già presidente del Comitato per l’Unesco, per la collana fiorentina “Libro Verità”. Ha già curato per la “Delta Tre Edizioni” le prefazioni alla silloge Lo Zefiro dell’anima (2019) di Pasquale Tornatore e al romanzo Le memorie del dio azteco (2021) dello storico Saverio Caprioli. A novembre 2023, ha curato il Convegno “L’ombra del doppio: la dicotomia nella poiesis” nella città di Lavello.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here