Il conflitto tra Israele e Iran è scoppiato come un’esplosione in pieno cielo. Letteralmente. Senza preavviso, senza premesse diplomatiche, senza una narrativa progressiva. La notizia dell’inizio delle ostilità è arrivata come una breaking news, con le immagini dei primi razzi iraniani caduti su Beer Sheva, accompagnate dai titoli secchi dei quotidiani occidentali. Poi gli attacchi mirati israeliani su infrastrutture strategiche. Poi ancora l’ennesimo scambio di fuoco. Ma non una parola sulle cause, sul contesto, sui perché. Diversamente da quanto accaduto con altri conflitti contemporanei — si pensi alla lunga genesi della guerra in Ucraina o alle infinite pieghe della questione israelo-palestinese — qui il racconto è saltato, come se il mondo non avesse diritto a sapere. O peggio: come se qualcuno avesse deciso che, stavolta, il racconto stesso fosse pericoloso.
E allora: perché questa guerra è iniziata già a metà copione, con il terzo atto già in scena e nessun primo atto da rileggere?
Un conflitto “senza prequel”: il silenzio che precede l’esplosione
Israele e Iran sono nemici storici, questo lo sappiamo. Ma negli ultimi anni i due Paesi si sono mossi su un equilibrio instabile fatto di attacchi indiretti, cyberwar, sabotaggi, operazioni sotto copertura e soprattutto guerra per procura. Teheran sosteneva Hezbollah, Hamas, i ribelli houthi. Tel Aviv rispondeva con azioni mirate, spesso negate o lasciate nel vago. Finché, nel giugno 2025, non si è più trattato di mandare messaggi. L’attacco iraniano su Beer Sheva — secondo fonti militari — ha colpito aree sensibili, vicine a infrastrutture Microsoft, e ha provocato incendi significativi. Israele ha risposto colpendo obiettivi interni sul territorio iraniano, confermando di fatto ciò che per anni era stato negato: la disponibilità ad agire in profondità anche fuori dai confini immediati.
Eppure, a differenza di quanto visto per l’Ucraina, dove la guerra è stata ampiamente discussa, analizzata, anticipata da mesi di escalation e commentari, qui la macchina mediatica è rimasta in silenzio. Nessuna indagine, nessuna corsa alle fonti, nessun analista in TV. Solo immagini e retorica. Una guerra di fatto presentata già “digerita”, senza sforzo interpretativo. Perché? Perché si è deciso — evidentemente — che il contesto non serviva. Anzi, che raccontare il contesto avrebbe potuto indebolire il consenso.
Il Golfo osserva. E si preoccupa
La reazione delle monarchie del Golfo — in particolare Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar — è paradigmatica. Paesi che fino a ieri tentavano, con fatica, di trovare un equilibrio tra le aperture verso Israele (pensiamo agli Accordi di Abramo) e il timore dell’asse sciita guidato da Teheran, oggi si trovano incastrati. Le cancellerie di Riyad e Abu Dhabi hanno espresso “profonda preoccupazione”, ma non hanno condannato apertamente né uno né l’altro fronte. Il motivo è evidente: una guerra aperta tra Israele e Iran significa uno tsunami regionale, una rottura irreversibile negli equilibri costruiti faticosamente in questi anni.
A peggiorare le cose, c’è il vuoto lasciato dagli Stati Uniti: l’amministrazione americana ha preferito non esporsi più di tanto. Il comunicato emerso dopo il G7 è stato vago, quasi imbarazzato, e si è limitato a un appello alla moderazione. E intanto Russia e Cina stringono i ranghi: Putin telefona a Xi Jinping e, in un raro gesto coordinato, i due capi di Stato condannano congiuntamente l’attacco israeliano, chiedendo un “ordine multipolare” che non sia più plasmato dalle logiche NATO-centriste. È evidente che questa guerra, oltre a essere una guerra mediorientale, è anche un fronte della nuova Guerra Fredda globale.
Il caso Meloni e la semantica del conflitto
Nel gioco sottile delle reazioni internazionali alla guerra tra Israele e Iran, l’Italia è finita nel mirino di Mosca. Non per un’azione militare, né per una presa di posizione ufficiale: ma per una dichiarazione. Nelle ultime ore, infatti, Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri russo, ha attaccato pubblicamente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, accusandola di aver auspicato un “cambio di governo in Iran” e invitandola, in tono sarcastico, a “leggere le risoluzioni ONU prima di parlare”.
Una frase, quella attribuita a Meloni, che avrebbe potuto passare inosservata in altri contesti. Ma non in questo. Non in un momento in cui ogni parola viene letta come una dichiarazione di guerra o di alleanza. Non in un contesto in cui la diplomazia si misura in sillabe. L’attacco di Zakharova, oltre a rivelare il nervo scoperto di Mosca rispetto a qualsiasi voce occidentale che contesti i suoi partner strategici, mette in luce un altro aspetto: la guerra tra Israele e Iran è anche un conflitto linguistico, simbolico, semantico.
Ogni commento viene interpretato, rilanciato, deformato. E l’Italia — tradizionalmente abituata a una postura mediana tra atlantismo e relazioni pragmatiche — si ritrova incastrata in una guerra di parole che rischia di avere conseguenze più concrete del previsto. Il cortocircuito è evidente: mentre l’Occidente parla in codice, con comunicati ambigui e retoriche da tempo di pace, Mosca e Teheran usano il linguaggio come arma, attaccano preventivamente, polarizzano la scena, costringono chiunque prenda parola a schierarsi.
In questo scenario, la politica estera italiana mostra tutta la sua fragilità comunicativa. Se persino un accenno a un’idea — un “Iran diverso” — può scatenare un incidente diplomatico, significa che la guerra, oggi, si gioca anche sul piano della narrazione più elementare: quella che passa dai microfoni ai titoli, dalle conferenze stampa alle timeline social.
E se non siamo in grado di difenderci nemmeno lì, allora la domanda diventa inevitabile: chi sta davvero scrivendo la storia che leggeremo domani?
Caucaso e Asia Centrale: il fronte meno visibile (ma esplosivo)
Nel cuore del Caucaso, dove si incrociano gli interessi israeliani (con l’Azerbaijan), quelli iraniani (con l’Armenia), e quelli turchi e russi, la tensione cresce. Israele utilizza da anni il territorio azero come piattaforma logistica e informativa: droni, basi radar, sistemi di sorveglianza. L’Iran lo sa, e considera Baku un potenziale proxy israeliano. L’Armenia, che dopo la guerra del Nagorno-Karabakh si è avvicinata a Teheran, rischia di essere nuovamente isolata, mentre l’Unione Europea guarda altrove, distratta dall’Ucraina e dai suoi problemi energetici interni.
Nel frattempo, si susseguono segnali preoccupanti: evacuazioni diplomatiche da Teheran, manovre sospette lungo il confine azero-iraniano, e una crescente pressione da parte della Turchia, che cerca di approfittare della confusione per estendere la sua sfera di influenza pan-turca. In sintesi: il conflitto Israele-Iran non è affatto confinato, ma si irradia come una rete di faglie geopolitiche pronte ad aprirsi ovunque.
Quando la guerra non ha nemmeno un nome
“Operazione speciale”, “pioggia di spade”, “piombo fuso”, “scudo protettivo”: le guerre, ormai, hanno nomi che servono a raccontarle, a venderle, a spiegarle. Ma questa no. Questa guerra, quella tra Israele e Iran, non ha nemmeno un nome. Nessun branding militare, nessuna cornice comunicativa. Non sappiamo nemmeno se è un conflitto “ufficiale” o una serie di azioni militari unilaterali. Questo vuoto semantico è tutto fuorché casuale: togliere il nome al conflitto serve a sfumare il giudizio. Serve a non farlo esistere davvero nella percezione collettiva.
Se non ha un nome, allora non ha un volto. Se non ha una causa esplicita, allora è “inevitabile”. E così il pubblico occidentale — e non solo — si abitua a consumare frammenti di guerra, come fossero aggiornamenti di cronaca nera. Un missile a Tel Aviv, un video su Telegram da Teheran, un tweet del portavoce dell’IDF. Tutto si consuma, nulla si comprende.
Chi ha paura delle domande?
La guerra tra Israele e Iran è un laboratorio comunicativo. Un esempio perfetto di come si possa fare la guerra evitando il dibattito pubblico. Nessuno ha spiegato le cause. Nessuno ha indicato obiettivi chiari. Nessuno ha chiesto il permesso. Si è semplicemente iniziato. In un’epoca dove il consenso è tutto, questa assenza è già una forma di consenso forzato.
E allora, le vere domande non sono su chi vincerà, ma su chi controlla la narrazione. Perché non ci hanno raccontato l’inizio? Perché nessuno ha chiesto conto degli obiettivi politici e militari? Perché questa guerra è stata progettata per essere percepita come “già in corso”, senza possibilità di giudizio critico?
Forse perché chi avrebbe dovuto spiegarla, sapeva che se lo avesse fatto, avremmo fatto troppe domande.