Trump, missili e geopolitica: il nuovo ordine dopo Israele – Iran

C’è una parola che più di ogni altra andrebbe bandita dalla cronaca geopolitica contemporanea: tregua.

Soprattutto quando viene annunciata a tamburi spenti, con sorrisi forzati tra leader, e celebrata come se fosse un accordo di pace firmato a Yalta. Perché quella tra Israele e Iran, ufficializzata lo scorso 24 giugno dopo dodici giorni di attacchi incrociati, non è una tregua: è un’interruzione strategica delle ostilità. Una pausa, sì. Ma imposta da chi ha il potere – e il diritto – di imporre pause: gli Stati Uniti d’America.

Il Medio Oriente brucia, ma con stile occidentale

Quello che è accaduto tra Israele e Iran è grave. Eppure prevedibile. Dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano in Siria e la successiva pioggia di droni e missili persiani su obiettivi militari israeliani, il conflitto ha minacciato una deriva che avrebbe coinvolto il Libano, l’Iraq, e chissà cos’altro. In realtà, la deriva era già in atto. Solo che non si voleva ammetterlo pubblicamente.

A contenere il tutto è stato – udite udite – Donald J. Trump, l’ex presidente USA ora tornato in carica. Non con un discorso da Nobel per la pace, ma con un ordine presidenziale che ha il sapore del ricatto: fermatevi, o vi fermo io. Israele ha colto il messaggio, l’Iran ha incassato, il mondo ha applaudito. E nel frattempo, la dottrina della forza ha fatto un altro passo avanti.

Il ritorno dell’impero e la fine delle regole

Un editoriale di Le Monde ha messo il dito nella piaga con precisione francese: “Dalle ceneri del vecchio ordine internazionale creato dagli Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale sta emergendo un mondo senza la minima considerazione per i principi e per le leggi. In questo nuovo mondo a comandare sono la forza e chi ne fa un uso senza limiti.”

Un passaggio che fotografa perfettamente l’attuale fase storica. Il diritto internazionale è diventato un’opinione, una retorica per conferenze ONU, non uno strumento reale. L’attacco israeliano del 13 giugno, deciso unilateralmente, ha fatto saltare ogni codice di legalità multilaterale. Ma, come sempre, la giustificazione arriva puntuale: “autodifesa”.

E così si passa da jus ad bellum a jus ad marketing, con tweet, conferenze stampa e droni armati.

Trump e Netanyahu: l’asse del cinismo

C’è poi il rapporto personale – e pericolosamente efficace – tra Trump e Netanyahu. Due leader che condividono l’arte della sopravvivenza politica attraverso la polarizzazione. Il primo è tornato al potere cavalcando l’onda anti-establishment, il secondo si regge su una coalizione militare-nazionalista che ha fatto del conflitto un’industria.

Trump aveva promesso meno guerre. Invece, sta trasformando ogni scontro in un’occasione per rafforzare la propria immagine di decisionista globale. A Washington si negoziava con Teheran, ma intanto aerei israeliani colpivano obiettivi selezionati grazie alle informazioni dell’intelligence americana.

A cose fatte, Trump si è vantato dell’inganno, ha minacciato l’Iran di “conseguenze peggiori” se non fosse tornato subito al tavolo dei negoziati. E mentre il Pentagono misurava i danni collaterali, le proteste esplodevano in casa sua.

Il 14 giugno, a San Francisco, migliaia di persone hanno sfilato con bandiere e drappi con la scritta NO KINGS. Il messaggio era chiaro: Trump non è un presidente, è un sovrano assoluto. Uno che vuole rifare la geopolitica mondiale con il compasso della paura.

Meloni, affinità e dissonanze

In Italia, intanto, la premier Giorgia Meloni ha dichiarato apertamente la propria affinità con Trump. È una dichiarazione che, in altri tempi, avrebbe fatto tremare le cancellerie europee. Oggi scivola via come una battuta fuori contesto.

Ma l’affinità è reale. Anche Meloni cerca legittimazione nel confronto-scontro continuo, nell’idea di un mondo diviso tra “noi e loro”, tra “giusto e sbagliato” decisi dal potere. E il fatto che l’Italia appoggi incondizionatamente Israele, senza porsi interrogativi sulle derive autoritarie del suo governo, non fa che confermare questa postura.

Iran: problema risolto o detonatore sospeso?

Molti osservatori occidentali hanno salutato la “fine dell’era iraniana” come una benedizione per il Medio Oriente. Ma è una visione ingenua, per non dire pericolosa.

L’Iran è stato (ed è) un attore destabilizzante, certo. Ma non ha mai avuto i mezzi per ridisegnare i confini del Medio Oriente o per cancellare interi popoli. Israele, invece, con la sua potenza militare, tecnologica e il sostegno occidentale, può farlo. E se la forza resta l’unico criterio per decidere chi comanda, allora il Medio Oriente non ha scampato una guerra: ne ha solo cambiato il padrone.

L’Iran ha costruito reti di resistenza attraverso Hezbollah, milizie in Iraq, influenze in Siria e Yemen. Israele, invece, sta cercando di cancellare tutto ciò con azioni chirurgiche ma devastanti. Il Mossad aveva già tracciato i bersagli settimane prima degli attacchi. E chi crede che Teheran resterà a guardare, probabilmente, non conosce il modo in cui si scrive la vendetta in farsi.

Le guerre dimenticate: Ucraina e Gaza

Nel frattempo, Gaza continua a sanguinare. E l’Ucraina esiste solo nelle ultime righe dei notiziari. Ma non sono guerre finite. Sono guerre normalizzate. E la normalizzazione del conflitto è il più grande fallimento morale e politico dell’Occidente contemporaneo.

Non si può parlare di tregua in Medio Oriente mentre il mondo stesso è una mappa di focolai attivi, e ogni silenzio si trasforma in complicità. Il rischio, concreto, è che il prossimo a perdere non sia l’Iran o Israele, ma la legittimità del modello occidentale come garante di ordine e giustizia globale.

Nessuna tregua è eterna

Quella del 24 giugno non è una fine. È solo una parentesi strategica tra due ondate di fuoco. Una tregua imposta per ragioni elettorali, diplomatiche e forse mediatiche.

Il mondo che sta nascendo non è multipolare: è multicritico. E chi pensa che basti un comunicato congiunto a riscrivere le alleanze o a spegnere i focolai, dovrebbe forse rileggere la storia.

La nuova geopolitica non sarà scritta nelle aule delle Nazioni Unite. Sarà scritta dai codici dei droni, dagli algoritmi dei mercati energetici e dai tweet dei presidenti.

E forse, a quel punto, non parleremo più di tregua. Ma solo di intervalli tra i bombardamenti.

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