Il governo vuole inserire il ponte sullo Stretto nella voce spese militari per raggiungere quel 5 % del PIL imposto dalla NATO. È una mossa tragico‑comica: si maschera un’operazione di propaganda come infrastruttura difensiva. Nel concreto, il passaggio di blindati e truppe dalla penisola all’isola non serve a rafforzare alcuna capacità reale, ma solo ad esibire potenza dove non c’è vulnerabilità. È un ponte esposto, fragile davanti al mare e all’attacco, non una diga contro un’invasione.
Quel ponte non è un’opera di difesa, ma un modo per far rientrare 13,5 miliardi nel 1,5 % di investimenti “collaterali” alla spesa militare. “Infrastrutture e telecomunicazioni strategiche”. È la scorciatoia contabile perfetta: un’opera civile che si veste da militare. E dopo che Bruxelles e la NATO decideranno se accettare o rigettare l’espediente, resta la beffa politica più che la sicurezza concreta.
Certo, nel mondo di oggi, in un equilibrio globale instabile e pieno di tensioni latenti, la corsa agli armamenti è tornata a essere prassi comune. Tutti si armano perché tutti si armano. È la logica fredda della competizione tra potenze: se rinunci, resti indietro; se resti indietro, sei vulnerabile.
Eppure, in questo scenario, bisognerebbe domandarsi se questa sia davvero evoluzione o solo il ritorno mascherato a una barbarie più sofisticata. Un mondo che ha attraversato due guerre mondiali, che ha visto genocidi, bombe atomiche, devastazioni in nome della sicurezza, dovrebbe avere imparato che armarsi è il contrario di pacificarsi. Che la vera forza di una civiltà matura non è nel numero di droni o carri armati, ma nella sua capacità di prevenire il conflitto, di disinnescarlo politicamente, di costruire alleanze, diplomazia, stabilità. Riempire i bilanci di spese belliche, invece, è la rinuncia a pensare la pace. È dichiarare che ci si prepara alla guerra come fatto inevitabile, non come possibilità da evitare a ogni costo. È l’arretramento culturale di un continente che si illude di essere moderno mentre torna, a testa alta, a ragionare con la paura e con la minaccia.
E pertanto la questione non è militare, è politica. Si punta ad aggirare vincoli europei, ottenere fondi a pioggia, alimentare consenso attorno a un’opera mitica. Ma quella mitologia non fa sistema difensivo, bensì dichiarazione simbolica.
In realtà, la difesa italiana avrebbe bisogno di ben altro: non un ponte sospeso sopra il mare, ma infrastrutture logistiche consolidate, basi efficienti, dragaggio di canali e porti, reti di intelligence e cybersecurity, pattugliamenti navali e aerei reali, non scenari da operazione propagandistica.
Il ponte così non è strategia, ma un trucco contabile. Non costruisce difesa: costruisce un’illusione di difesa, su travi esposte e precarie, annacquata nei numeri militar‑contabili, più adatta a un talk show che a un quartier generale NATO.