In trasparenza l’anima: l’esordio in cinquina al premio Giuseppe Berto

Il 24 luglio 2025, la giuria del Premio Giuseppe Berto, ha reso nota la cinquina finalista della XXXII edizione. Il riconoscimento, nato su iniziativa di amici, estimatori e critici letterari, seleziona l’opera prima di narrativa italiana che vanta – sulle altre – originalità di forma, schiettezza e ispirazione.  Emanuele Trevi – presidente del collegio giudicante – ha espresso verso i titoli scelti un commento preciso, che lascia intuire comunità d’intenti con la penna di Berto; un autore anticonformista, moderno, che percepiva gli ostacoli di pubblicare un libro valido e, con tutto sé stesso, lavorava finché giovani dopo di lui ne incontrassero meno.  Nelle prose scelte, segnala Trevi, ‘non c’è ricerca di effetto, né di adesione a forme riconoscibili.  È un tipo di letteratura che non sente bisogno di spiegarsi troppo, e proprio per questo genera senso.’  

Tra i finalisti c’è Beatrice Sciarrillo – Laureata in Beni Culturali e diplomata nel Master di scrittura creativa presso l’Accademia Molly Bloom di Roma – già vincitrice di un’opera prima col racconto Più niente da toccare (2023), riconosciuto dal premio Italo Calvino.  L’autrice torinese sposta la penna sulla prosa lunga e lì prende forma In trasparenza l’anima (66than2nd): il primo romanzo di cui si dà un’ipotesi di lettura.  

È un diario distrutto, ricomposto; la scrittura trattiene un corpo che gode poiché scompare. Un romanzo di morte asciutta, misurata, senza abuso di dolore o fretta d’imbastire una svolta, un’evasione di speranza. Questa premessa è scarna, incompleta, specie se riferita al libro il cui titolo suona, solenne, come un oracolo.

La penna di Beatrice Sciarrillo è fine come un bisturi che scava la pelle, e rompe l’omogenea superficie di carne a protezione. Le parole tagliano e, con uguale tensione, infliggono allo spirito ferite senza crosta che non chiudono più. L’autrice dà un ritmo alla storia che si consuma all’istante; parole e contenuto scivolano via in un attimo. In realtà, la trama è sintesi di prove diverse: dai primi frammenti, scritti nel periodo cronico del disturbo, al romanzo di Anita: anime diverse ma corpi del medesimo dolore. Tra autrice e voce narrante – per dirla in termini Pirandelliani – c’è la storia di un doppio; un legame ambivalente poiché, mentre la seconda scompare, la prima lotta affinché la salvezza, pretesa quanto odiata, possa vincere il desiderio di morte di cui si fa serva-scrittrice. Tuttavia, In trasparenza l’anima, è anche un romanzo corale; la trama lievita di storie a margine: dal punto d’inizio, altri centomila orizzonti possibili. Dunque, un numero consistente di personaggi muove la prosa con discorsi diretti mai sinceri. Le voci del romanzo, quelle che Anita sente nel reparto d’ospedale dove è ricoverata, sono emesse da anime afflitte dal disturbo del comportamento alimentare. Un malessere psichico che chi ne soffre nega di avere e, mentre l’assenza di cibo logora il corpo, la mente disperde energie ed elabora inganni, menzogne, anticipa risposte a situazioni che potrebbero condurre, in trasparenza, il dolore che le rende malate. Da qui, l’unica trasparenza di cui ha senso parlare, è quella fisica; la dimensione di un corpo che tende al nulla per tornare tale.

Un disturbo, qualunque esso sia, altera la visione del mondo; l’universo di Anita è stretto, asfittico, non c’è posto per altri che per lei e il suo dolore. In alcuni passi, il lettore sente di non poterla seguire e s’arresta a prendere aria.

Dal lavandino alla doccia c’è spazio per muoversi, un rettangolo di piastrelle azzurre che nessuno pulisce da almeno una settimana.

La malattia rende piccoli i luoghi, lo spazio non è abbastanza per camminare; tuttavia, trasformare il cibo in forza dinamica consente di raggiungere il piacere: uno stato di estasi che solitamente assicura la droga. Anche gli oggetti agli occhi di Anita perdono di superficie. La sciarpa che le copre il sondino senza nodo la cinge strettissima; al contrario, la miscela che la tiene in vita scende nello stomaco che al tatto è enorme. Se dall’esterno qualcosa l’attraversa si sente grande e pensa di esplodere. Dunque, la mente avverte il corpo che si protegge col rifiuto: le vene troppo piccole rigettano la flebo; la bocca chiusa rifiuta di bere.

Io serro i denti, ma l’acqua passa tra le fessure e sono costretta a mandarla giù.

Nella frase estratta dal libro, erano i genitori che la trattenevano di forza mentre il liquido, il più comune a tenerci al mondo, le scendeva con discutibili quantità di zucchero. Per Anita: madre, padre, acqua e glucosio, erano ugualmente nemici al di là dell’affetto, più dell’amore. In questa storia solo Marta – la primogenita – resta fra i contatti che la malattia non sfigura. Non muta alla vista di Anita che la vede paziente, ferita ma mai delusa o arresa; i suoi occhi sono dolci quando passa alla sorella la bottiglia d’acqua che non berrà e, resteranno tali, quando la vedrà stare meglio.

Beatrice Sciarrillo narra, con trasparenza, cos’è un disturbo alimentare: le sensazioni e i conflitti interni di chi vive in prima persona la confusione cui è sottoposto; un mondo, come si è detto, in cui tutto si ribalta e si àltera. Ma non solo, questo libro tocca un aspetto atipico della malattia: la volontà del paziente di rifiutare la cura, lasciarsi morire anche quando c’è una via di uscita; infine, le aspettative di chi dall’esterno attende un cambiamento, l’angoscia del paziente nel vedere in frantumi i tentativi falliti, la promessa di una cura che sa di poter tradire e più volte lo farà. La strada di Anita continua ad essere stretta, in salita, senza conoscere la distanza che la separa dall’arrivo e se ci sarà, in trasparenza, un sentiero verso l’anima.

Il romanzo, edito per 66thansecond, è in gara con altri quattro titoli: Pietà (Antonio Galletta, Einaudi), Airù (Alberto Locatelli, Italo Svevo edizioni), Santa (Rosanna Turone, NN Editore) e Col buio me la vedo io (Anna Mallamo, Einaudi). Il sei settembre alle 18:30, Giancarlo Loquenzi condurrà la serata finale nel parco della Cultura Antonio Caregaro Negrin (Mogliano Veneto). Come di consueto, il premio transita da Mogliano Veneto, città natale di Berto, a Capo Vaticano (VV): località dove l’autore trascorse gran parte della sua vita e dove oggi riposa. Prima di giungere in Calabria per la prossima edizione, bisogna attendere l’esito del vincitore di quest’anno nel piccolo comune della provincia di Treviso; per l’occasione, è possibile visitare la mostra dedicata – ‘Verso la Gloria. Giuseppe Berto: uno scrittore, il suo archivio ‘ – al Brolo Centro d’Arte e Cultura. Il ricordo dell’autore è conservato vivamente dalla figlia Antonia – madrina dell’evento – che premierà l’autore con un riconoscimento in denaro e, un’altra somma, verrà divisa fra i quattro autori partecipanti non eletti.  Non resta che attendere settembre per una serata di grande letteratura, nella speranza che l’esordiente scelto possa avere sorte simile a Michele Ruol: vincitore uscente e già in cinquina al premio Strega (2025) con Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa, 2024).

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