Sedici minuti in italiano, scanditi, quasi austeri, in una sala semivuota dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Giorgia Meloni ha scelto la sobrietà scenica come cifra di un discorso che, più che ai delegati seduti nel grande emiciclo, era diretto a chi ascolta da lontano: alle cancellerie europee, alle redazioni italiane, agli elettori di casa.
La cornice è netta: apertura sulla “terza guerra mondiale a pezzi”, citazione di Papa Francesco, e chiusura affidata a San Francesco, simbolo di coraggio e sacrificio. Nel mezzo, una scansione di temi che ripercorrono i principali dossier globali: Ucraina, Medio Oriente, migrazioni, clima, riforma dell’ONU. Nessun colpo di teatro, ma un filo narrativo coerente, volto a dare l’immagine di un’Italia severa e affidabile, capace di rivendicare la propria autonomia.
Ucraina
La condanna alla Russia è dura e priva di ambiguità: “Ha calpestato lo Statuto delle Nazioni Unite.” Nessuna apertura al compromesso, nessuna concessione al linguaggio del negoziato. L’Italia resta ancorata al fronte euro-atlantico.
Gaza e Palestina
È la sezione più significativa. Meloni riconosce che Israele ha “superato il limite” della proporzionalità, denuncia gli insediamenti e ribadisce che non può essere negato il diritto a uno Stato palestinese. Ma lega il riconoscimento italiano a due condizioni: la liberazione di tutti gli ostaggi e l’esclusione di Hamas dal futuro governo palestinese. Una posizione calibrata: critica a Israele, ma nessuna concessione al radicalismo palestinese.
Migrazioni
Qui la premier porta sul palco mondiale un conflitto interno. Le convenzioni internazionali sull’asilo vengono bollate come “non più attuali” e piegate da interpretazioni “ideologiche” di magistrature politicizzate. È un passaggio che parla meno al mondo e molto di più alla platea domestica, in un momento in cui il governo ha bisogno di rafforzare la narrativa della fermezza.
Clima e industria
L’attacco non è al principio della transizione, ma al modo in cui è stata progettata. Il “green” che crea “deserto industriale” è lo slogan scelto per segnare una linea di divisione con Bruxelles: l’Italia non contesta la decarbonizzazione, ma rifiuta la fretta e l’ortodossia ideologica.
Meloni non rinnega l’ONU, ma ne denuncia l’inefficacia: “Multilateralismo, dialogo e diplomazia, senza istituzioni che funzionano, sono parole vuote.” È la chiamata a una riforma che renda l’ONU “più rappresentativo ed efficiente”, senza “nuove gerarchie” tra Stati forti e Stati deboli. È un discorso che intercetta un malessere diffuso, ma che non propone soluzioni concrete: un manifesto, più che un progetto.Il valore del discorso non sta tanto nella platea semivuota di New York, quanto nei riflessi che avrà su Roma e su Bruxelles.
Sul piano interno, Meloni porta all’ONU i temi che costituiscono la sua identità politica: sovranità, diffidenza verso i giudici, gradualismo sul clima. Ogni parola sembra calibrata per rafforzare l’immagine di un governo saldo, che non si piega a diktat esterni. È un modo per rinsaldare il patto con la propria base, mostrando che le battaglie domestiche non sono soltanto “questioni italiane” ma problemi universali. Al tempo stesso, però, c’è un calcolo politico più raffinato: inserire il lessico della politica interna — giudici, migrazione, green — in una cornice globale significa proiettarli oltre i confini, nobilitarli. In questo modo, Meloni cerca di trasformare temi divisivi sul piano nazionale in segni distintivi di una leadership che “fa scuola” anche all’estero. È un’operazione che mira a rafforzare la sua immagine di premier non più soltanto di destra, ma di “statista nazionale” capace di portare la propria agenda al tavolo mondiale.
Sul piano internazionale, il discorso rivela un doppio obiettivo: rafforzare la fedeltà all’alleanza atlantica e, al tempo stesso, costruire spazi di autonomia che diano all’Italia un ruolo di mediatore credibile. La fermezza sull’Ucraina serve a blindare i rapporti con Washington e Bruxelles; il richiamo critico a Israele intercetta il malessere arabo e di parte dell’Europa, ma senza concedere nulla che possa incrinare l’alleanza strategica. Sul clima, infine, Meloni si candida a portavoce di un fronte di paesi che chiedono transizioni più graduali: non un rifiuto del green, ma una sua “correzione di rotta”. È un posizionamento che, in prospettiva, mira a far sedere l’Italia al tavolo non come spettatore, ma come attore capace di orientare i compromessi.
In sintesi
Meloni non ha parlato soltanto a nome del suo governo, ma ha cercato di presentarsi come interprete di una parte del mondo occidentale che rifiuta gli estremismi — quelli russi, quelli di Hamas, quelli climatici — e chiede pragmatismo. È questa la chiave che spiega perché, pur in una sala semivuota, le sue parole sono destinate ad avere eco ben oltre il palazzo di vetro.
L’impressione generale è quella di un’Italia che vuole apparire protagonista, senza correre il rischio di rompere gli equilibri. È un discorso che mostra fermezza, ma che lascia aperte molte ambiguità: duro con Mosca, ma senza proporre vie d’uscita; critico con Israele, ma vincolato a condizioni difficili da realizzare; ostile alle derive del green, ma senza una proposta industriale alternativa credibile. Se l’obiettivo era apparire “voce di ragione severa” in un mondo in disordine, il messaggio è arrivato. Ma se la vera sfida è trasformare queste parole in iniziative capaci di incidere, allora l’ONU resterà soltanto un palco — e il rischio, per Meloni e per l’Italia, è che la potenza retorica si esaurisca nello spazio tra il marmo verde del podio e i titoli dei giornali.