Nella notte tra il 12 e il 13 giugno 2025, Israele ha condotto un attacco su larga scala contro più obiettivi militari e nucleari all’interno del territorio iraniano. Secondo le prime ricostruzioni, le operazioni – partite contemporaneamente da basi israeliane e da postazioni non meglio identificate in Iraq – hanno colpito con precisione chirurgica, ma non senza conseguenze devastanti, centrali nucleari strategiche come Natanz e Khondab, oltre a comandi militari dei Pasdaran e depositi di missili balistici. Gli attacchi hanno causato oltre 300 vittime, inclusi diversi alti ufficiali iraniani, e hanno scatenato un immediato blackout dell’informazione nel paese.
Benjamin Netanyahu ha definito l’operazione “un atto di autodifesa preventiva”, un ossimoro strategico che ormai ha perso qualsiasi ambiguità semantica: quando Israele dice “difesa”, intende “colpire per primo”. Del resto, l’Iran – secondo fonti israeliane – avrebbe superato la soglia critica di arricchimento dell’uranio, avvicinandosi pericolosamente alla costruzione di un ordigno nucleare. Da qui, la necessità di agire “prima che sia troppo tardi”. Ma tardi per chi? Per Israele? Per la diplomazia internazionale? O per un intero sistema regionale che oggi rischia l’implosione?
Un attacco che non è solo militare: il colpo al cuore della geopolitica energetica
Il raid israeliano non ha colpito solo basi e impianti sotterranei, ma ha inferto un colpo devastante anche alla fragile architettura economico-energetica mondiale. L’Iran è il settimo produttore di petrolio al mondo e controlla, attraverso lo Stretto di Hormuz, quasi il 20% del traffico petrolifero globale. Bastano questi due numeri per comprendere perché, alla notizia dei raid, i mercati siano letteralmente impazziti: il prezzo del petrolio ha toccato in meno di 24 ore livelli da crisi del Golfo del 1990, con il Brent in rialzo di quasi il 9%, e il WTI in crescita a doppia cifra.
Non è solo una questione di barili. È una questione di panico. Le borse mondiali hanno bruciato centinaia di miliardi in poche ore, con Tokyo in calo, Wall Street nervosa e gli investitori alla ricerca del proverbiale “bene rifugio”, che non è più l’oro, ma l’illusione di una stabilità che nessuno può garantire. Il rischio reale? Che l’Iran chiuda lo Stretto di Hormuz, bloccando il transito navale e mettendo in ginocchio le economie dipendenti dal greggio arabo-persico. Sarebbe come chiudere il rubinetto del mondo in piena estate. E l’Occidente sa bene che senza petrolio non si va da nessuna parte, nemmeno in vacanza.
Gli Stati Uniti e il teatrino della neutralità: “Noi? Mai stati qui, parola di Biden”
L’amministrazione statunitense ha fatto sapere, quasi con un certo zelo, di non essere stata coinvolta né informata preventivamente dell’attacco israeliano. Un po’ come quei genitori che dicono di non sapere dove vada il figlio il sabato sera, mentre lo scaricano davanti alla discoteca.
A Washington sanno bene che ogni mossa israeliana può innescare una reazione a catena che coinvolgerebbe anche le forze USA presenti nella regione. Eppure, il Pentagono non ha fatto una piega: ha solo lanciato un avviso, neanche troppo velato, a Teheran, intimandole di non colpire basi, interessi o personale americano. Insomma: fatevi la guerra, ma non sporcateci i pantaloni.
In realtà, la “non-ingerenza” americana sa tanto di autorizzazione tacita. La Casa Bianca, con un occhio rivolto a Tel Aviv e l’altro alle prossime elezioni, gioca sul filo della doppiezza diplomatica: lascia fare Israele, salvo poi mettersi il mantello del “mediatore neutrale” se le cose degenerano. Intanto, Trump – da lontano – aizza le fiamme, definendo l’attacco “una lezione necessaria” e suggerendo di stringere patti prima che sia troppo tardi. Quando il piromane dà consigli ai pompieri, forse è il momento di evacuare l’edificio.
L’onore, la deterrenza e il punto di non ritorno per Teheran
Per comprendere l’importanza strategica di questo attacco per l’Iran, occorre spostare l’attenzione dal terreno al simbolico. Come ha dichiarato Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali, “per Teheran è in gioco l’esistenza stessa come potenza regionale”. In altre parole, se l’Iran non reagisce, cessa di esistere come attore credibile nello scacchiere mediorientale. Sarebbe come se un pugile incassasse un gancio e si sedesse all’angolo senza nemmeno provare a rispondere.
E infatti, la reazione iraniana non si è fatta attendere. Le forze aerospaziali dei Pasdaran hanno lanciato esercitazioni “simboliche” con droni e missili a corto raggio, alcuni diretti verso le Alture del Golan, altri intercettati prima ancora di lasciare lo spazio aereo iraniano. Ma la risposta definitiva è ancora nell’aria. Come ipotizza Margelletti, potremmo assistere a un’ampia gamma di ritorsioni: droni suicidi, attacchi informatici, sabotaggi nei porti, o l’impiego di proxy armati come Hezbollah in Libano e Houthi in Yemen.
Un attacco diretto? Improbabile ma non impossibile. Il rischio di escalation è reale, concreto e, soprattutto, legato all’elemento culturale dell’”onore nazionale”, un concetto che in Occidente viene spesso ridicolizzato ma che in Medio Oriente è la spina dorsale della politica estera.
Dove ci porta tutto questo? Analisi di uno scenario da incubo
Questa guerra non è “la solita scaramuccia” tra due potenze regionali. È un terremoto geopolitico dai risvolti globali. Le variabili sono molteplici:
1. Mercati globali nel caos: l’aumento del petrolio impatta su inflazione, trasporti, produzione e bilanci statali. Siamo nel pieno di una nuova crisi energetica, con l’Arabia Saudita che osserva, silenziosa e inquieta.
2. Diplomazia al tappeto: se prima il ritorno all’accordo nucleare del 2015 era una chimera, oggi è una barzelletta. Gli Stati Uniti non possono più fingere di mediare, la Russia e la Cina stanno a guardare, e l’Europa, come spesso accade, è impegnata a fare appelli alla moderazione che nessuno ascolta.
3. Conflitto a più teste: il rischio più alto è quello di una guerra a frammentazione multipla: non solo Israele contro Iran, ma Iran contro Arabia Saudita, sciiti contro sunniti, milizie contro governi deboli. Un Medio Oriente nuovamente incendiato, con effetti domino che potrebbero durare anni.
4. Opinione pubblica confusa: in Iran non esploderanno rivolte – per ora – ma nemmeno in Israele si dorme sonni tranquilli. Il governo Netanyahu è già sotto assedio interno, e la retorica della “difesa ad ogni costo” ha il fiato corto. Nel frattempo, il mondo guarda, in silenzio, mentre le notizie si rincorrono più velocemente dei missili.
Guerra lampo o scintilla globale?
L’attacco israeliano all’Iran non è solo una questione militare. È un evento che potrebbe ridefinire gli equilibri globali per anni. È la fine di un’illusione: quella che fosse ancora possibile contenere il conflitto israelo-iraniano entro i confini della diplomazia.
I’m Non è più tempo di domande. È tempo di scenari. E se la satira, in casi come questo, ha ancora un senso, allora possiamo dire che il Medio Oriente è oggi un gigantesco tavolo da Risiko, ma con bombe vere e pedine umane. Solo che nessuno ha letto le istruzioni, e ogni turno di gioco costa centinaia di vite.