Silenzio e rumore. Calma e caos. Percorsi sereni e strade trafficate. Apparenze e realtà. Con queste parole si potrebbero racchiudere le esistenze raccontate in “Le nostre guerre silenziose”, nuovo romanzo di David Valentini, edito Accento Edizioni.
Lo si capisce già dalla scelta del titolo: la guerra, in fondo, non sono mai silenziose. E ciò che ne rimane è molto spesso una pace apparente. La stessa pace apparente che sembra trasparire alla Verdicchio Consulting, la società di consulenza in cui si susseguono le vicende dei protagonisti. Valentini smonta la tranquillità che i singoli personaggi portano in scena ogni mattina nel momento in cui entrano in ufficio, come se si potesse spegnere la propria vita per tutte le otto ore (a volte anche di più). Forse è ciò che pretende la società contemporanea. Lasciare i problemi a casa, restare concentrati a lavoro, produrre sempre di più, dedicarsi il più possibile al proprio lavoro, magari tralasciando le persone care, la cura per sé stessi, fino a perdersi.
Così si perde Katia che ogni sera ha sempre un motivo per non andare in ospedale a trovare il padre in fin di vita e nella maggior parte dei casi le scuse inventate riguardano gli impegni incombenti in ufficio: ci sono le scadenze da rispettare, non c’è tempo per prendersi una pausa. Ma alla fine non c’è più tempo neanche di vivere gli ultimi momenti con il proprio padre, se non sul finale.
All’interno della bolla dell’ufficio, le vite dei personaggi si sgretolano sempre più. C’è Paola che non riesce ad affrontare la gravidanza della moglie fino al tradimento. Ogni forma di comunicazione salta, non c’è comprensione. Ma si cerca solo di fuggire dai propri problemi per poi vederti cadere addosso. Perdere il lavoro, una moglie e una figlia appena nata. Solo per sentirsi vivo in un attimo.
C’è una figura che colpisce più di tutti: Antonio. In perfetta controtendenza rispetto a tutti è l’unico che cerca di fuggire dal caos. Rifiuta i ritmi frenetici della contemporaneità, alle 18 in punto spegne il suo pc e lascia l’ufficio. E alla fine è l’unico a produrre di più e meglio. Forse un chiaro segnale che la freneticità non porta a nulla. In ogni campo, sia nella vita lavorativa sia privata, Antonio ci dimostra che bisogna dapprima trovare un equilibrio interiore per poter affrontare ciò che la vita ci pone.
E poi c’è Roma. Basta aprire le finestre dell’ufficio o del balcone che si affaccia verso la Stazione di Tiburtina: così il caos interno si intreccia al traffico tipico di Roma. Alle mille domande che rimbombano nella mente si aggiungono i rumori delle macchine, le urla al semaforo. E Roma diventa la rappresentazione perfetta del contrasto tra ciò che immaginiamo di una città o di una persona e ciò che queste sono per davvero. Roma viene rappresentata con le sue bellezze, c’è il Colosseo, il tramonto al Pincio, immagini in cui tutto sembra immobile. Così come la società ci vorrebbe dietro una scrivania: perfetti, composti, produttivi, sempre sorridenti e accoglienti. Ma anche Roma nasconde le sue crepe, basta semplicemente metterci piede e si viene travolti. Così come basterebbe entrare per davvero nelle vite delle persone per rendersi conto di tutte le guerre silenziose che ci portiamo dentro. Basterebbe scardinare l’idea di perfezione, semplicemente perché siamo umani. Ognuno con i propri drammi, con i propri traumi, con le proprie manie, con i propri sogni, con i propri tempi.
“Il caos è dentro di me, non là fuori”