Tra repressione interna, interessi esteri e tensioni regionali, il Kenya riflette le contraddizioni strategiche del continente africano
Fondamentale per la stabilità di tutta l’Africa orientale, il Kenya oggi è in una fase di profonda turbolenza sociale e politica. Le tensioni civili, generate da una nuova legge finanziaria e aggravate da un’escalation nella risposta delle forze di sicurezza oltre ad una crescente pressione economica, stanno mettendo in discussione non solo la stabilità politica del Paese, ma anche il suo ruolo come polo strategico dell’Africa orientale.
Crisi interna: proteste e repressione
Negli ultimi tre anni il governo keniota ha adottato misure impopolari, tra cui un aumento delle tasse su diversi beni – come il pane – e l’eliminazione dei sussidi statali per il carburante. Le proteste del 2023 e del 2024 furono indirizzate nel contestare queste misure, tanto che il presidente William Ruto fu costretto a fare un passo indietro sull’aumento delle imposte, di fatto ritirando i precedenti provvedimenti. Allo stesso tempo però, rispose alle proteste con la forza, provocando ulteriore malcontento, fino all’escalation del 7 luglio scorso, quando in occasione dell’anniversario del movimento per il multipartitismo (Saba Saba), decine di migliaia di persone sono scese in piazza in tutto il Paese. Tra le cause principali della rabbia popolare ci sono i nuovi aumenti imposti dalla Finance Act 2025 su oltre 29 beni e servizi essenziali, tra cui (di nuovo) carburanti, transazioni mobili e prodotti alimentari di base. Decine di migliaia di cittadini sono scesi in piazza nelle principali città – Nairobi, Mombasa, Kisumu – denunciando l’alto costo della vita, la corruzione sistemica e l’autoritarismo crescente del governo di Ruto, in realtà contestato fin dal suo insediamento (nel 2022) quando fu accusato di brogli.
La risposta delle forze di sicurezza è stata brutale: secondo Amnesty Kenya, almeno 53 manifestanti sono stati uccisi, mentre centinaia sono stati arrestati arbitrariamente. Le immagini di poliziotti che sparano “alle gambe” dei manifestanti – come richiesto dallo stesso Ruto in una controversa dichiarazione – hanno fatto il giro del mondo, provocando indignazione a livello internazionale. Il presidente keniano, sostenuto, all’epoca della sua elezione, dai giovani che oggi invece lo contestano, ha accusato i manifestanti di essere “tribalisti senza un piano” e ha aggiunto: “non possiamo consegnare il paese a questa gente”. Molti tra gli esponenti di opposizione hanno interpretato queste ed altre simili frasi a preparare l’opinione pubblica al fatto che Ruto tenterà di restare al potere in tutti i modi, a prescindere dal risultato delle prossime elezioni, previste per il 2027. Alcuni leader dell’opposizione, tra cui Raila Odinga, hanno chiesto le dimissioni del presidente. In molte aree del paese, soprattutto nelle periferie urbane, la situazione è diventata tesa e imprevedibile. La Commissione nazionale keniota per i diritti umani ha reso noto che le violenze si sono concentrate in almeno 17 contee della nazione, riflettendo una presenza capillare delle proteste nell’intero Paese. In un comunicato ufficiale la Commissione ha sottolineato anche l’esistenza di gruppi violenti armati in modo rudimentale, individui che impugnavano armi come fruste, machete, lance, archi e frecce, elementi che non solo hanno alimentato il clima di pericolo e incertezza, ma hanno contribuito a rendere molto difficile il lavoro delle forze dell’ordine, peggiorando la situazione. La Commissione ha inoltre segnalato, nella capitale Nairobi, la presenza di gruppi armati mascherati che agivano in affiancamento alla polizia.
Un paese chiave per gli equilibri regionali
Il Kenya ha una lunga storia di relazioni internazionali con attori globali che vedono nel Paese un partner strategico. È una pedina determinante negli equilibri dell’Africa orientale: è sede della principale base militare americana nella regione (Camp Simba a Manda Bay), ed ospita installazioni di intelligence britanniche e interessi cinesi piuttosto rilevanti. Mentre Washington esprime “profonda preoccupazione” per la repressione, evitando però sanzioni formali, Pechino continua a mantenere una posizione di “non interferenza”, limitandosi a rafforzare i legami economici, come dimostrato dalla recente Huawei LEAP Job Fair, che ha offerto oltre 1.700 posti di lavoro a giovani keniani nel settore tech. Nel frattempo, emergono anche dinamiche più opache: un’inchiesta giornalistica ha svelato l’esistenza di un traffico di organi che coinvolgerebbe cittadini keniani e presunti intermediari israeliani e tedeschi. Il fenomeno, diffuso in aree povere di Nairobi e Nakuru, è sintomo di una crescente disperazione economica. Una crisi umanitaria e morale che mette in luce i limiti della governance locale e l’assenza di tutela dei diritti fondamentali.
La crisi democratica e la sfida della leadership
L’opposizione, guidata da Raila Odinga e sostenuta da vari attivisti per i diritti civili, ha chiesto ufficialmente le dimissioni di Ruto: “Non possiamo più tollerare un regime che considera la vita dei cittadini sacrificabile” ha dichiarato Odinga in un comizio a Kisumu. Al contempo, la magistratura cerca di riaffermare la propria indipendenza: l’Alta Corte ha recentemente ordinato il ripristino delle trasmissioni in diretta delle proteste, dopo che il governo aveva imposto blackout mediatici per limitare l’impatto delle manifestazioni. Alcuni media indipendenti, insieme a gruppi per i diritti umani, continuano a documentare le violazioni e a fornire spazi di dibattito. Intanto, la società civile keniana – una delle più attive del continente – sta cercando di organizzarsi, tra scioperi, iniziative studentesche e campagne sui social network. L’impressione è che il movimento di protesta sia ancora lontano dall’esaurirsi.
Prospettive future: crollo o possibile rilancio?
Quello che sta accadendo in Kenya è parte di una problematica più ampia: una crescente tensione tra esigenze di sviluppo economico, autoritarismo istituzionale e domanda di rappresentanza democratica. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se il paese riuscirà a gestire le sue contraddizioni senza scivolare in una spirale autoritaria o in un’instabilità prolungata. L’instabilità keniana rischia infatti di propagarsi nei vicini Uganda, Etiopia e Somalia, dove tensioni simili sono già in fermento. Gli investitori internazionali iniziano a ritirarsi, mentre la comunità diplomatica chiede riforme urgenti. Il Kenya ha sempre rappresentato una promessa: un’economia emergente, una società civile dinamica e giovane, un ruolo chiave nelle missioni ONU e AU. Ma oggi questa promessa vacilla. Il rischio è che il paese scivoli verso un autoritarismo cronico o, peggio, verso un’escalation violenta che potrebbe destabilizzare l’intera regione.
La doppia sfida
La sfida del Kenya è duplice: ricostruire la fiducia tra Stato e cittadini e rinegoziare il proprio ruolo sullo scacchiere internazionale. Le scelte che Nairobi farà nei prossimi mesi non riguarderanno dunque solo i keniani, ma l’intero equilibrio del Corno d’Africa.