Si rimette in moto la macchina diplomatica: il piano USA-Israele propone disarmo e transizione amministrativa, ma ignora il nodo della sovranità palestinese. Stasera l’incontro a Doha tra Hamas, Turchia e Qatar
Nella serata di oggi, 30 settembre, una delegazione di Hamas incontrerà rappresentanti del Qatar e della Turchia per discutere il controverso piano di pace proposto da Donald Trump e Benjamin Netanyahu per la Striscia di Gaza. La riunione, confermata dal Ministero degli Esteri del Qatar, rappresenta la prima risposta ufficiale ad un reale tentativo di intesa politica strutturata su 21 punti, che prevede (in breve): un cessate il fuoco graduale, il disarmo progressivo di Hamas, la creazione di un’autorità civile di transizione e un ruolo attivo della comunità internazionale nella ricostruzione post-bellica. Ma se da un lato la partecipazione di Hamas al dialogo suggerisce una (piuttosto fragile) apertura diplomatica, dall’altro lato il piano continua a generare divisioni profonde, tanto all’interno del governo israeliano quanto tra i principali attori regionali e internazionali.
Il piano Trump-Netanyahu: contenuti e obiettivi
Annunciato alla Casa Bianca il 29 settembre da Donald Trump, in un contesto di ritorno in grande stile sulla scena internazionale, il piano mira a porre fine al conflitto nella Striscia in tre fasi:
- Fase 1: cessate il fuoco temporaneo, rilascio di ostaggi israeliani entro 72 ore, apertura di corridoi umanitari.
- Fase 2: smilitarizzazione di Hamas, ritiro graduale delle truppe israeliane, creazione di una forza di sicurezza mista (con presenza internazionale).
- Fase 3: riforma dell’Autorità Palestinese, istituzione di un’amministrazione civile provvisoria, avvio della ricostruzione con fondi esteri (tra cui Arabia Saudita, UE e USA).
Netanyahu ha accettato il piano “con riserve”, chiarendo che l’adesione allo stesso non implica un riconoscimento di Hamas come interlocutore politico e che Israele manterrà una presenza militare permanente in punti strategici per garantire la sicurezza. Il piano è comunque subordinato alla risposta affermativa da parte di Hamas senza la quale, dice Netanyahu, “finiremo il lavoro”, affermazione, tra l’altro, avallata anche dal Presidente statunitense. In effetti, il fatto che Hamas abbia accettato di sedersi al tavolo con mediatori qatarini e turchi viene letto da alcuni osservatori come un segnale di realismo tattico, più che di accettazione politica del piano. In una dichiarazione diffusa poche ore prima dell’incontro, il portavoce di Hamas ha definito il piano “inaccettabile nella forma attuale”, aggiungendo però che “il movimento lo esaminerà responsabilmente”. Inoltre, il coinvolgimento della Turchia, alleata storica di Hamas e critico feroce delle politiche israeliane, potrebbe indicare un tentativo condiviso con altri mediatori arabi di modificare il piano negoziale, presentando una posizione più unita e influente nei confronti di Stati Uniti e Israele.
Reazioni internazionali: aperture e diffidenze
Se – ovviamente – l’amministrazione Trump ha accolto con favore l’apertura del dialogo, sottolineando il ruolo “indispensabile” del Qatar nel mediare, con il Dipartimento di Stato che ha definito l’incontro “un passo significativo verso una pace duratura, ma condizionata alla smilitarizzazione di Gaza”, l’Unione Europea ha reagito invece con cautela. Il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, ha dichiarato che “qualsiasi accordo deve includere garanzie per la protezione dei civili e una prospettiva politica chiara per i palestinesi”. Inoltre, diversi Stati membri, tra cui Francia e Irlanda, hanno espresso preoccupazione per l’assenza di riferimenti espliciti a uno stato palestinese. Nei 21 punti infatti, non viene contemplata formalmente la creazione di uno stato palestinese in quanto tale, mentre si fa riferimento solo a una possibile “amministrazione civile di transizione a Gaza” sotto supervisione internazionale. Per la Casa Bianca infatti: “La questione dello Stato palestinese è rimandata a una fase successiva di negoziato, e non è parte integrante dell’attuale accordo” ed ha sottolineato che l’obiettivo prioritario è “la stabilità e la sicurezza nella regione”.
Se Trump non ha mai citato, durante la conferenza stampa congiunta, la frase “two-state solution”, Netanyahu su questo è stato ancora più esplicito: “Israele non accetterà mai uno Stato palestinese sovrano a Gaza o in Cisgiordania. Questa proposta parla solo di stabilità, non di sovranità”, ed ancora ha dichiarato che Israele “non accetterà mai uno Stato palestinese pienamente sovrano”, soprattutto se ciò implicasse la rinuncia al controllo di aree strategiche o al diritto di intervento militare. Inoltre, la governance della Cisgiordania non viene riformulata: resta sotto l’Autorità Palestinese, ma il piano non propone unificazione o sovranità comune. Questa impostazione ha suscitato forti reazioni da parte dell’Unione Europea, di alcuni Stati arabi e di settori dell’opinione pubblica internazionale, che vedono nel piano un consolidamento dello status quo piuttosto che un’autentica via verso la pace. Per molti, senza il riconoscimento di un diritto politico ai palestinesi, il piano rischia di essere percepito come una soluzione tecnica a un problema profondamente politico.
Tornando alla reazione internazionale generata dal piano congiunto, il riscontro del Mondo arabo è stato discorde: l’Egitto sostiene l’intesa come “base negoziale”, ma insiste sull’inclusione dell’Autorità Palestinese come unico attore legittimo, mentre l’Arabia Saudita ha evitato commenti diretti ma ha confermato che “sosterrà finanziariamente la fase di ricostruzione, purché ci sia un consenso palestinese”. Ma come previsto, le reazioni più radicali arrivano da Iran ed Hezbollah che hanno rigettato il piano come un “tentativo di consolidare l’occupazione israeliana sotto copertura americana”.
Tensioni interne in Israele: Smotrich e l’ultradestra minacciano il governo
Sul fronte interno israeliano, il piano ha acceso una tempesta politica. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, leader dell’estrema destra religiosa, ha minacciato di far cadere il governo se Netanyahu dovesse accettare “una tregua con Hamas ancora armato”. Smotrich ha definito il piano “un fallimento strategico” e chiede l’occupazione permanente di Gaza e l’eliminazione totale delle capacità militari e politiche di Hamas. La sua posizione è condivisa da Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale, che ha parlato di “resa morale”. Netanyahu è dunque stretto tra le pressioni internazionali (soprattutto statunitensi) e il rischio di implosione della coalizione di governo.
Un equilibrio difficile
Se da un lato il piano Trump-Netanyahu ha rotto il lungo stallo, riportando Hamas a dialogare sotto l’ombrello qatarino e turco, dall’altra i divari politici e ideologici tra le parti restano profondi. Con l’incontro di stasera a Doha, il futuro della Striscia si giocherà non solo nei termini militari, ma anche in quelli strettamente geopolitici, ossia sul controllo politico del “dopo-Hamas”, sulla garanzia di sicurezza e su come assicurare e gestire – e soprattutto se sarà mai possibile – un ruolo autonomo per il popolo palestinese, o se al contrario resterà confinato ed in balìa di attori esterni.
Comunque, a meno di 24 ore dalla presentazione ufficiale, Hamas non ha firmato né approvato formalmente il piano. Un portavoce ha definito l’accordo “una farsa orchestrata da occupanti e loro alleati”, denunciando l’esclusione totale del movimento da ogni fase decisionale e l’intenzione di “smantellare la resistenza sotto copertura umanitaria”. Senza il consenso di Hamas – o quantomeno di una sua ala pragmatica – l’accordo rischia di restare lettera morta. Tuttavia, alcuni analisti notano che la crescente pressione militare e il deterioramento delle condizioni umanitarie a Gaza potrebbero spingere la leadership islamista a valutare l’accordo più attentamente nei prossimi giorni, così come si auspica.
Occasione storica o operazione di facciata?
Il piano Trump-Netanyahu per Gaza rappresenta la proposta diplomatica più articolata dal 7 ottobre 2023. Tuttavia, resta avvolto da ambiguità operative, ostilità politiche e un profondo scetticismo locale e internazionale. Senza l’adesione di Hamas, la legittimazione delle autorità palestinesi e una garanzia multilaterale credibile, l’accordo rischia di essere percepito più come una mossa elettorale che un vero piano di pace. Molti osservatori infatti, vedono in questa iniziativa un calcolo politico da parte di Trump, che ha deciso di rilanciare la sua immagine internazionale a poche settimane dal secondo dibattito presidenziale americano. La mossa appare anche come un tentativo di consolidare l’appoggio dell’elettorato cristiano-evangelico, da sempre molto sensibile alla sicurezza di Israele.
Per Netanyahu, alle prese con una crisi di consenso interna e pressioni crescenti da parte dei suoi alleati più radicali, il piano offre invece una via d’uscita politica che non implichi la sconfitta militare né l’apertura a una soluzione a due Stati.
Mentre l’attenzione resta dunque fissa sull’incontro a Doha di stasera, il futuro della regione è appeso a un filo. La diplomazia ha aperto uno spiraglio, ma l’equilibrio tra interessi nazionali, rivalità regionali e lacerazioni interne resta precario.
Vedremo.