Una triade di monadi sale sul palcoscenico roteando silente tra le rosse pieghe del drappeggio che separa gli spettatori dalla finzione scenica. Tre minuti di vibrazione nell’ombra e il sipario squarcia il velo della fantasia di chi guarda.
È l’esordio del nuovo saggio spettacolo “Il Teatro incantato” di Massimiliano Carretta, direttore artistico e maestro della scuola di danza lucana Ballet Studio. Il palco del cineteatro San Mauro di Lavello sarebbe divenuto presto il sipario d’un teatro anastatico e la scenografia si sarebbe rivelata la solida giuntura tra tradizione contemporanea e innovazione moderna, le due corde metodologiche che hanno reso manifesta una nuova arte italiana della danza.
La tripartizione stilistica dei momenti in classico, moderno e contemporaneo distribuita in tre stasimi che hanno scandito le tre ore totali di esecuzione coreutica, ha situato sotto le coreografia dei maestri Massimiliano Carretta, Nilde Serpa, Serena Gugliotta e Andrea Veneri insieme al ballerino Gabriel Di Ruvo, neoresponsabile di palcoscenico, una vera e propria trisectomia tematica dell’Arte.
La prolusa passeggiata impressionista nel ticchettio morbido delle scarpette bianche ha aperto da subito il prologo intitolato “Il Camerino del passato: un viaggio nei classici”, espositore programmatico della mise en scène di una narrazione che nella occlusiva morsa segnata dalla direzione teatrale nazionale, arranca a divergere dalla semplice mise en place della tecnica coreografica.
La struttura che regge l’intera impalcatura dello spettacolo non è quindi meramente monodisciplinare, non è solo coreutica, ma corale. L’idea che dell’atto danzante arriva allo spettatore meno coinvolto, non è solo pragmatica, ma teoretica, anzi la prevalenza formale della parte teoretica sembra avanzare non nitida sulla base pragmatica e informale del gesto, quanto più la memoria teatrale dell’atto assopisce la forma gestuale dell’idea.
Addensata nella prima parte ascritta all’intero primo atto, suddiviso in tre scene, una componente quasi lirica nutriva l’atmosfera del tempo esecutivo, incorniciando l’esibizione e astraendo la tecnica dall’emozione. Il primo atto delle “Scarpette rosse” potrebbe pertanto dirsi molto più rituale che gestuale all’interno della sintassi stilistica, laddove il gesto crea sempre lo stile.
Ma lungo l’asse rituale la teatralità diventa anche scena mimetica in una ingressiva litote episodica per cui il senso iniziale diventa opposizione di quello corale. L’uno si oppone al molteplice nel secondo atto, scaturendo nella scatola spaziale un “fuoco nei sotterranei” come “danza della liberazione”.
La scelta coreografica dell’insistenza dell’elemento ctonio sulla presenza vergine dell’elemento patetico, isolato nella sua delicata riflessività metateatrale, ben rappresentata dalla trasparenza del velo che si scioglieva nel buio dell’abisso e si riaccendeva a fiamma repentina dello spirito umano, allontana dallo stereotipo l’originalità intellettuale del maestro Carretta. Una fiamma che scompariva in silenzio e risorgeva nell’aerea distensione di Serena Gugliotta come nell’epilogo tragico dell’eschileo Prometeo Incatenato, laddove il fuoco si è fatto carne.
Dalla contemporaneità del dissidio mentale che stride alla visione anti-atlantista dell’emergenza in Medio Oriente, dalla asfissia autocratica che preme sulla scintilla democratica europea, l’itinerario metateatrale scagiona l’impaccio satirico della quinta parete, quella ideale, avviandosi a sogno teatrale per un “camerino del futuro”.
Il terzo e ultimo atto, definito dalla regia artistica un “tributo alle icone musicali” avverte il passaggio di consegne dalla musa tersicorea a quella calliopea, dove sottentra quel che potremmo chiamare, con l’apporto coreografico di Gabriel Di Ruvo e Serena Gugliotta, il momento parabatico dell’arte.
La cessione luministica del finale concerto scenografico, è un dichiarato preludio all’oscurità macabra della follia. A scala piramidale lo sguardo affronta nel chiaroscuro l’infrazione di angeli decaduti. Poi, dopo la paralitica quiete di un cosmo, un’esplosione di menadi e demoni che sovvertono il tratto della passione umana.
Una conturbata folla dantesca si dimena tra eros e pathos sulle note polifoniche di Abracadabra di Lady Gaga, che sommuove l’ultimo ordine della narrazione.
Una danza menade davanti all’Apollo del futuro, è la linfa magica che si effonde nell’animo della platea, a compimento di quell’incantesimo promesso dalla triade sin dall’inizio. La parabasi dell’autore verso lo spettatore, lo ha investito sotto la coltre del lettore dionisiaco.
