Gli accadimenti che, in queste ore, stanno tenendo alta l’attenzione dei media e degli osservatori di politica internazionale su Iran e Israele sono certamente rilevanti dal punto di vista degli esiti e dei possibili sviluppi sia regionali sia internazionali.
Tuttavia è possibile quantomeno tentare di ricavare anche alcuni spunti analitici più profondi nonché capaci di gettare una luce diversa sulla lettura dei contesti di causa ed effetto connessi al teatro del Vicino Oriente.
Le pulsioni realiste di Trump
In primo luogo appare necessario analizzare il comportamento dell’attuale amministrazione Trump; in quanto coloro i quali asseriscono l’esistenza di una dottrina Trump e, più globalmente, una tendenza del Presidente al Realismo delle Relazioni Internazionali, almeno in alcune sue forme, potrebbero trovare delle interessanti prospettive di conferma negli scenari che proprio ora si stanno sviluppando e susseguendo.
Vi sono numerose prove che portano ad affermare che Trump segua la cosiddetta Teoria del Pazzo delle Relazioni Internazionali, già famosa nell’era Nixon. Tale teoria si basa sull’uso razionale dell’irrazionalità per creare deterrenza, andando ad agire in particolare sulla paura che viene suscitata in avversari dubbiosi circa la possibile tendenza verso l’escalazione estrema di un’eventuale reazione del soggetto applicante la teoria ad un attacco.
Se connettiamo questa teoria, squisitamente realista, con il fenomeno sempre più ricorrente della militarizzazione degli spazi mediatici digitali sulla falsariga della guerra ibrida; quello che otteniamo è uno schema in cui la principale potenza militare del mondo usa la sua deterrenza come veicolo di minaccia e di asserzione sulle reti sociali. Un esempio? I due post ove Trump ha rispettivamente intimato di evacuare Teheran e di essere a conoscenza del luogo in cui la Guida Suprema dell’Iran si stesse nascondendo. Non è solo Trump a sfruttare queste dinamiche. Ne è un esempio il post sugli account social ufficiali delle istituzioni iraniane in cui si vede la stella di David al centro della bandiera israeliana trasformarsi in una bara, con la successiva comparsa della scritta the end (la fine).
Che cosa succede quando il Presidente degli Stati Uniti opera simili annunci in forma così diretta in stretta contemporaneità con sviluppi di crisi securitaria regionale? Il primo effetto è ovviamente il clamore, seguito all’effettiva preoccupazione derivante dalla potenza dell’attore dichiarante. Quest’ultimo gode infatti di grande potenza ed autorità, e questo conferisce serietà a tutte le ipotesi implicate; siano esse razionali od irrazionali. Da qui si giunge ad un quadro dottrinario basato su quello che potremmo chiamare “realismo emotivo”; nel quale, a differenza della visione realista classica impostata sull’equazione potere uguale forza militare, il pilastro di fondo consiste nel suscitare sconvolgimenti mediatici che inizializzano input di guerra psicologica. E in questo la digitalizzazione e la mediatizzazione delle informazioni e dei loro sistemi di trasmissione giocano un ruolo fondamentale.
Venendo ora alle ragioni tattico-strategiche motivanti un possibile intervento statunitense a sostegno diretto di Israele contro l’Iran; è possibile richiamare ancora una volta in soccorso elementi realisti. Infatti il calcolo dell’amministrazione Trump potrebbe consistere nel tentare di sorpassare un alleato carismatico, come il premier israeliano, che non sembra controllabile come nelle iniziali aspettative di Washington. Allo stesso tempo, una possibile escalazione controllata della crisi tra Israele ed Iran potrebbe condurre ad un rovesciamento del regime iraniano nel lungo periodo; sfruttando proprio le dinamiche di guerra psicologica che venivano richiamate prima.
Pertanto la volontà di Washington potrebbe essere quella di intervenire in una crisi che rischia di esplodere prendendone il controllo prima che si oltrepassino limiti strategicamente e tatticamente invalicabili. Tuttavia tale scelta espone la corrente amministrazione, che anche se realista rimane comunque isolazionista, al rischio di un intervento militare convenzionale dalla dimensione quantomeno variabile. Appare chiaro che i falchi di Washington stanno avendo un ruolo chiave nel promuovere questa ondata di interventismo, e, per ora, Trump intravede una convenienza strategica mascherata con annunci altalenanti in puro stile teoria del pazzo. Le sue dichiarazioni hanno difatti contemplato le opzioni più svariate, immaginando addirittura un’improbabile mediazione della Russia di Putin. Una nebbia di guerra per celare un piano di cambio di regime a medio periodo? Forse; e intanto occorrerebbe ricordare che Trump, solitamente vendicativo (l’Iran lo aveva “condannato” all’indomani del raid contro il generale Qasem Soleimani), aveva promesso di “scatenare l’inferno in tutto il Medio Oriente” se tutti gli ostaggi israeliani non fossero stati rilasciati; cosa che ancora non è accaduta. Frattanto il figlio dello Shah, che risiede in America, ha già dichiarato di essere a disposizione del suo popolo…
Dinamiche di intervento
Un punto nodale del possibile coinvolgimento americano riguarda la possibilità di fornire asset militari da impiegare nella distruzione di infrastrutture strategiche del programma nucleare iraniano. Si tratterebbe degli ordigni GBU-57A/B bunker buster (bomba anti-bunker) capaci di penetrare in profondità nel terreno al fine di distruggere infrastrutture fortificate e consolidate nel terreno, come il complesso di Fordow.
Soltanto gli Stati Uniti hanno la possibilità di lanciare tali ordigni usando i bombardieri stealth B-2 Spirit; considerando oltretutto che il sito nucleare di Fordow si trova al di là della portata raggiungibile dai sistemi israeliani. Il calcolo strategico deve valutare la convenienza dell’impiego assieme ai possibili sviluppi derivanti; condensando poi la totalità del portato nell’ottica dei benefici e delle perdite riscontrabili sul piano predittivo. Non si tratta di una scelta d’impiego che sarà presa alla leggera, ma è chiaro che una buona pianificazione tattica potrebbe avere esiti impattanti anche oltre il mero livello di teatro. In definitiva, esiste la possibilità che l’asse Washington – Tel Aviv possa uscire dalla crisi con un’immagine rafforzata e vittoriosa ai danni di un Iran sconfitto ed umiliato, riportando l’elemento della superiorità del potere militare occidentale alla ribalta della narrativa internazionale. Alcuni segnali motivanti una simile scelta sembrano già arrivare dalla minore intensità registrata nei contrattacchi missilistici iraniani, probabilmente dovuti alla neutralizzazione massiva che Israele ha effettuato con la sua operazione lampo nei giorni scorsi.
Sul piano generale, occorre dire che il ruolo dell’attrito deve essere sempre considerato. Quando ci si prepara a bombardamenti dalla durata prolungata si incrementa, per conseguenza, anche il rischio di generare la necessità di un intervento di terra. La questione fondamentale consisterà nella capacità israeliana di mantenere la supremazia aerea; elemento che, almeno nel breve termine, sembra essere assicurato. Grazie al controllo dei cieli da parte israeliana ed, eventualmente, statunitense si può infatti asserire che le capacità di risposta iraniane siano state perlopiù azzerate o rese vane; rendendo dunque vulnerabili sia gli insediamenti sia le infrastrutture e gli asset critici. Per chi vuole ragionare sullo sfondo degli Studi Strategici, sarebbe quasi un’applicazione sostanziale dei teoremi di Douhet.
Bisogna ovviamente aggiungere al contesto la comparazione in trade off tra gli effetti distruttivi degli attacchi al suolo e i danni riportati sul lato israeliano, nonché l’estensione spaziale significativa del teatro Iran. Fin quando i danni riportati da Israele saranno contenuti la strategia di aggressività avrà un funzionamento positivo. Pertanto le logiche predittive volte ad analizzare lo sviluppo della crisi non potranno prescindere da un’analisi accurata e fattuale delle perdite e dei conseguimenti tattici riportati da entrambi gli schieramenti.
Un elemento di relativa certezza può esser già individuato nel fatto che la supremazia aerea consente di eliminare infrastrutture critiche per il funzionamento logistico degli apparati, come i siti di stoccaggio del carburante. Anche se delle infrastrutture profonde dovessero alla fine sopravvivere all’ondata di distruzione dall’alto, rimarrebbero comunque nel potere degli attaccanti varie opzioni di inattivazione e annullamento strutturale di entrate, uscite e sistemi d’aerazione. Il tutto conservando la possibilità di ricorrere al supporto ausiliario di unità di forze speciali operanti nell’ombra e con rapida e chirurgica efficacia.
Sicuramente si tratta di avvenimenti da monitorare con attenzione, i quali già dimostrano, se ancora le altre attuali situazioni belliche non dovessero bastare, che relegare la rilevanza della dimensione squisitamente militare ai margini dello spettro analitico sarebbe un errore gravissimo.