In questi giorni e abbiamo sentite molte, anche troppe, riguardo alcuni studenti che, legittimamente, hanno deciso di fare scena muta all’orale della maturità. Un gesto di protesta. Un gesto consapevole. Un gesto forte, forse anche scomodo, ma profondamente eloquente.
In quel silenzio c’è un grido: contro un sistema scolastico percepito come distante, vecchio, competitivo fino all’alienazione. Un gesto che non va deriso né punito, ma ascoltato. Perché racconta moltissimo del disagio delle nuove generazioni nei confronti di una società sempre più complessa, che chiede loro tutto e offre poco in cambio.
Davanti alla scelta di questi studenti la classe dirigente di questo Paese dovrebbe interrogarsi sui perché, non cercare nuovi metodi per reprimere chi non si allinea al sistema. E invece la risposta, come troppo spesso accade, è la stretta disciplinare.
Il ministro Valditara, infatti, ha annunciato una riforma della maturità che renderà impossibili gesti simili in futuro. Chi sceglierà di non parlare, anche se già ampiamente sufficiente grazie al credito scolastico e agli scritti, sarà bocciato. Senza appello. Nessuno spazio per il dissenso, per la riflessione o per la critica. Nessuno spazio per l’esercizio democratico in un luogo, la scuola, che dovrebbe formare prima di tutto pensatori. La sanzione è l’unica strada.
Ma davvero il problema del sistema scolastico italiano è il silenzio di questi studenti? Davvero la priorità è colpire chi protesta e non ascoltare le ragioni che lo hanno spinto a farlo?
Il nuovo esame di Stato, secondo quanto anticipato, dovrebbe valorizzare il percorso personale dello studente, le competenze trasversali, il curriculum, l’educazione civica. Eppure, proprio chi ha provato a esercitare una forma di cittadinanza attiva, una critica civile e pacifica, si troverà escluso dal sistema. Qualcosa non torna.
Non è con le minacce che si ristabilisce l’autorevolezza della scuola. Non è alzando la voce o alzando muri che si riconquista il rispetto delle nuove generazioni. Anzi: è proprio questa rigidità cieca, questo rifiuto di ascolto, che alimenta il loro allontanamento. Il loro disagio.
Per questo diciamo con chiarezza: nessuno tocchi gli studenti. Nessuno li usi come bersaglio per distogliere l’attenzione dalle vere falle del nostro sistema educativo. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui si impara a pensare, non a obbedire. A parlare, certo, ma anche a tacere con significato.
Quello che è successo non è un capriccio: è un segnale. Sta alle istituzioni scegliere se reprimerlo o finalmente capirlo.