Macron apre al riconoscimento dello Stato di Palestina, segnando una svolta nella diplomazia europea. Ma senza controllo del territorio e un consenso globale, la sovranità palestinese resta sospesa tra aspirazione e realtà. Anche se Israele rischia l’isolamento.
Emmanuel Macron durante un intervento all’Eliseo, ha annunciato che a settembre 2025 la Francia riconoscerà formalmente lo Stato di Palestina. Questa dichiarazione ha causato la rottura uno dei più radicati equilibri diplomatici dell’Occidente. Il presidente francese ha parlato di una “scelta responsabile, giusta, e necessaria”, per riportare sul tavolo una prospettiva politica alla crisi israelo-palestinese che non accenna a risolversi ma anzi lascia perplessi circa la seria difficoltà di riuscire ad intervenire in alcun modo. Il riconoscimento, ha specificato Macron, avverrà nel contesto della prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove Parigi sosterrà anche l’adesione della Palestina come membro a pieno titolo. La reazione israeliana è stata immediata. Il ministro degli Esteri Israel Katz ha definito la mossa francese “un grave errore strategico” e un “premio al terrorismo”. Secondo il governo Netanyahu, la decisione ignora il ruolo di Hamas e delegittima il diritto di Israele a difendersi.
Le reazioni dell’Europa
Ma non sono mancate ovviamente le reazioni di tutta la Comunità internazionale: il Regno Unito si è detto “preoccupato”, pur mantenendo una posizione interlocutoria. Il Foreign Office ha dichiarato che “ogni passo verso la soluzione a due Stati deve essere coordinato e garantire la sicurezza di Israele”. Il Canada ha espresso una linea simile, sottolineando il rischio di “polarizzazione diplomatica” in assenza di progressi concreti. La Germania, più cauta, continua a ribadire che il riconoscimento dovrebbe essere “l’esito e non la precondizione di un processo negoziale”. Il governo italiano ha dichiarato di comprendere le ragioni francesi, ma ha evitato di annunciare un cambio di rotta, insistendo sulla necessità di una posizione comune europea. “Controproducente” ha dichiarato la Meloni, che spiega che “se qualcosa che non esiste viene riconosciuto sulla carta, il problema rischia di sembrare risolto, quando non lo è”. “Quanto ho detto è la ragione per la quale essendo favorevolissima allo Stato della Palestina, non sono favorevole al suo riconoscimento a monte di un processo per la sua costituzione”, dice oggi, 26 luglio, sostenuta anche da Antonio Tajani: “L’Italia è per la soluzione due popoli e due Stati. Ma il riconoscimento del nuovo Stato palestinese deve avvenire in contemporanea con il riconoscimento da parte loro dello Stato di Israele. A noi interessa la pace, non la vittoria di uno sull’altro”. L’Europa sembra dunque spaccata, con la Spagna in accordo con la Francia che ha definito il gesto di Macron “coerente e necessario” ed il primo ministro irlandese Simon Harris che ha parlato di un “passaggio storico” per restituire dignità al popolo palestinese.
Se il riconoscimento da parte della Francia segue quelli di Irlanda, Spagna, Norvegia e Slovenia, avvenuti nel 2024, nel blocco orientale dell’UE si avvertono le reazioni più fredde. Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno espresso dubbi sull’opportunità della decisione francese: Varsavia ha dichiarato che “il riconoscimento non può avvenire senza garanzie di disarmo per i gruppi armati palestinesi”.
Le reazioni nel mondo arabo e musulmano
Nel mondo arabo, la mossa di Macron è stata accolta con entusiasmo. L’Egitto ha definito il gesto “un passo coraggioso” e il re Abdallah II di Giordania ha elogiato la Francia per “aver dato voce alla giustizia storica”. Anche l’Arabia Saudita, nonostante i suoi contatti crescenti con Israele negli ultimi anni, ha sostenuto l’iniziativa, parlando di un “gesto essenziale per rilanciare una soluzione politica” ed ancora il Qatar ha invitato altri paesi a seguire l’esempio francese, mentre l’Oman e il Kuwait hanno espresso “profonda gratitudine” per quella che definiscono una scelta che ridà “visibilità internazionale al popolo palestinese”.
La decisione della Francia ha incrinato un fronte occidentale che, per decenni, ha sostenuto in modo compatto la posizione israeliana. Se altri Stati europei – come Germania, Italia o Regno Unito – dovessero seguire l’esempio francese, Israele potrebbe trovarsi a fronteggiare una pressione diplomatica senza precedenti, ritrovandosi, di fatto, isolata, non solo da parte del Sud globale (che da anni sostiene la causa palestinese), ma anche di partner storici e alleati militari. Tuttavia, il rischio di isolamento non è né automatico né inevitabile. Dipenderà da alcune condizioni:
1. L’atteggiamento degli Stati Uniti
In primis, finché Washington continuerà a garantire a Israele protezione diplomatica, militare e finanziaria, un vero isolamento sarà difficile. Gli Stati Uniti, al momento, hanno condannato apertamente la scelta di Macron. Il segretario di Stato Marco Rubio ha infatti parlato di “una scelta unilaterale che allontana la pace”, mentre la portavoce della Casa Bianca ha definito “prematuro” qualsiasi riconoscimento senza un accordo negoziale. Washington, fedele alla dottrina secondo cui lo Stato palestinese deve nascere da un accordo bilaterale, non sembra intenzionata a seguire la Francia, restando l’unico attore con un potere di veto effettivo nei consessi multilaterali e con un’influenza decisiva su molti alleati occidentali. Ma anche negli Usa il clima sta cambiando: una parte crescente dell’opinione pubblica, in particolare tra giovani e progressisti, mette in discussione il sostegno incondizionato a Netanyahu, specialmente dopo l’offensiva su Gaza. Presumibilmente dunque, un cambio di amministrazione – o piuttosto una crisi politica interna più profonda – potrebbe modificare gli equilibri esistenti. Israele ha sempre contato sul fatto che l’appoggio americano fosse bipartisan. Ma oggi quella garanzia è più fragile, specialmente considerando le pressioni crescenti non solo dell’Occidente ma di quelle, seppur molto velate, di Xi Jinping che propendono per un cessate il fuoco.
2. La rigidità del governo Netanyahu
L’altro elemento centrale è politico ed interno al governo israeliano. Se l’attuale governo di Netanyahu continuerà a rifiutare qualunque prospettiva di soluzione a due Stati, ad espandere gli insediamenti illegali e a mantenere un controllo militare permanente sulla Cisgiordania minacciandone, di fatto, l’integrità, la disapprovazione da parte della comunità internazionale continuerà ad aumentare, di conseguenza alla crescente preoccupazione per l’assetto geostrategico, oltre che geopolitico globale, messo già pesantemente in discussione.
Finora, Israele ha potuto contare su una narrativa per certi versi – seppure solo diplomaticamente e politicamente – efficace: quella di uno Stato democratico che si difende da nemici ostili. Ma l’equilibrio è cambiato, specialmente dopo la denuncia ormai unanime da parte della comunità internazionale. L’occupazione prolungata e le politiche di annessione mettono oggettivamente a rischio la legittimità democratica dello Stato agli occhi di molte cancellerie. Se non ci sarà un’inversione di rotta politica, il consenso internazionale potrebbe erodersi del tutto e Netanyahu potrebbe perdere completamente gli appoggi ancora esistenti, vanificando qualsiasi tentativo di attenuanti plausibili.
3. La riorganizzazione della leadership palestinese
Israele giustifica parte della sua intransigenza sostenendo che “non esiste un interlocutore credibile” tra i palestinesi. In effetti in parte è così: l’Autorità Nazionale Palestinese è screditata, corrotta e inefficace; Hamas è considerata da molti Stati un’organizzazione terroristica. Ma se nei prossimi mesi emergerà una leadership palestinese riformata, legittimata internamente e riconosciuta a livello internazionale, la pressione su Israele per tornare al negoziato aumenterà. E rifiutarsi di trattare con un interlocutore riconosciuto rischierà di isolare diplomaticamente Tel Aviv. Su questo potrebbe giocarsi il ruolo delle intelligence e delle diplomazie internazionali: Stati pro Palestina potrebbero concentrarsi nel coadiuvare la formazione di una possibile leadership palestinese degna di costituire uno Stato che, in tal senso, sarebbe dunque sostenuto. Ma non c’è solo questo aspetto da considerare: eliminare territorialmente la Palestina serve ad Israele per farla cessare di esistere, facendo de facto venire a mancare uno dei cardini della sovranità statale: il territorio. La questione tempo gioca un ruolo determinante in tal senso, così come la rivendicazione territoriale da parte israeliana.
4. La decisione degli Stati occidentali
Al momento spaccati, se gli Stati occidentali – come però al momento non sembra – dovessero uniformare le loro posizioni facendo fronte comune per il riconoscimento dello Stato palestinese, l’apertura di Macron potrebbe essere effettivamente presa in considerazione. Il passaggio non sarebbe comunque semplice: la Palestina è uno Stato giuridicamente credibile ma politicamente incompleto. Ha molte caratteristiche tipiche di uno Stato, ed è riconosciuta da una larga parte del mondo, ma manca l’unanimità dei grandi attori globali e l’accesso pieno alle istituzioni internazionali. Nel diritto internazionale, lo Stato palestinese esiste, ma nel sistema politico globale è ancora sospeso tra legittimità e riconoscimento, tra simbolo e sovranità. L’eventuale riconoscimento da parte della Francia (e forse di altri Stati europei) potrebbe spostare questo equilibrio, rafforzando la sua posizione nei fori internazionali e mettendo pressione politica su Israele. Ma senza una riconciliazione interna e un accordo politico concreto – e previa ottemperanza della Convenzione di Montevideo (1933) – la statualità della Palestina resterà, almeno in parte, incompiuta.
Alleanze e alternative
Israele non è (ancora) isolata. Ma potrebbe diventarlo se continuerà a rifiutare qualunque prospettiva politica per il popolo palestinese. La storia recente mostra che le alleanze sono finalizzate e che anche le solidarietà più radicate possono logorarsi di fronte alla violazione sistematica del diritto internazionale. In un’epoca in cui il Sud globale chiede nuovi equilibri e l’opinione pubblica occidentale è meno disposta ad accettare doppi standard, Israele dovrà scegliere se restare arroccata su una posizione difensiva permanente o aprirsi a una vera prospettiva politica. L’alternativa, forse per la prima volta, ha contorni di reale isolamento.