Proteste a Los Angeles: una lettura critica delle dinamiche interne e internazionali

Mentre nel mondo si è aperto un nuovo fronte di guerra tra Iran ed Israele, continuano le proteste a Los Angeles che si sono allargate in molte altre città americane. Un’analisi delle motivazioni e dei risvolti politici internazionali

Il contesto

Los Angeles è ancora in piazza: le accese proteste contro Trump non si fermano ed a dieci giorni dall’inizio delle manifestazioni, la città continua a essere teatro di scontri, cortei e atti di disobbedienza civile in risposta alla linea dura dell’amministrazione Trump sull’immigrazione e alla controversa decisione di inviare forze federali nelle strade.

Tutto è cominciato il 6 giugno, con una serie di raid condotti dall’ICE (Immigration and Customs Enforcement) in varie zone urbane, tra cui il Fashion District e un noto magazzino (l’Home Depot). Le operazioni hanno portato all’arresto di oltre cento persone e scatenato un’ondata di proteste spontanee. Le tensioni sono esplose definitivamente il giorno successivo, quando a Compton gruppi di manifestanti hanno lanciato bottiglie incendiarie contro la polizia, spingendo il presidente Donald Trump a ordinare il dispiegamento di 700 Marines e della Guardia Nazionale in supporto alle forze locali. Da allora, il clima in città è sempre più teso. Blocchi stradali, sit-in e occupazioni simboliche si sono alternati a momenti di forte tensione. Il 9 giugno, un gruppo di manifestanti ha incendiato cinque veicoli autonomi della società Waymo nel centro di Los Angeles, in segno di protesta contro il controllo digitale delle aree urbane. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni e proiettili di gomma, causando numerosi feriti, tra cui almeno sette giornalisti colpiti durante la copertura degli eventi. Il governatore della California, Gavin Newsom, ha duramente criticato l’intervento militare federale e ha inviato una formale richiesta al segretario alla Difesa, Pete Hegseth, per il ritiro immediato delle truppe. “La militarizzazione della crisi non è la soluzione. Serve dialogo, non repressione”, ha dichiarato Newsom in un discorso trasmesso in diretta televisiva. Intanto, le proteste sono sostenute da organizzazioni per i diritti civili come la Coalition for Humane Immigrant Rights of Los Angeles e Unión del Barrio, che denunciano una sistematica violazione dei diritti delle minoranze e una criminalizzazione della povertà e della migrazione. Il clima di contestazione non resta confinato alla California. Anche città come New York, Chicago e Dallas sono scese in piazza, alimentando un’ondata di mobilitazione nazionale contro le politiche migratorie e securitarie dell’amministrazione Trump. In un contesto già segnato da tensioni internazionali e instabilità economica, la crisi interna americana rischia ora di allargarsi ulteriormente, aprendo una nuova fase di conflitto politico e sociale nel Paese in un momento difficile per l’amministrazione Trump che si sente spinta e minacciata, ora, anche dall’Iran.

Un’analisi degli eventi

Se uno dei punti focali della campagna presidenziale di Trump è stato quello di portare avanti la lotta contro l’immigrazione clandestina, sembra quasi che la volontà di aumentare la tensione coinvolgendo sia la Guardia Nazionale sia i Marines possa essere dettata dal tentativo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da una serie di fallimenti che già in pochi mesi della sua amministrazione si sono verificati, quali il mancato dialogo tra Putin e Zelensky per la pace tra Ucraina e Russia, il congelamento dei rapporti con Israele e la mancata risoluzione del conflitto di Gaza, le tensioni, parzialmente sedate, con la Cina di Xi per la questione dei dazi. Motivi che, negli ultimi tempi, stanno vedendo calare il consenso dei votanti verso il Presidente statunitense. La percezione degli americani sta infatti cambiando: l’idea del Make America Great Again a tutti i costi ed a costo, invece, della chiusura verso relazioni diplomatiche stabili e concilianti a scapito di una economia in deficit, di un ceto medio ormai da anni sofferente a cui non si presta dovuta attenzione e di una esportazione difficoltosa (a cui i dazi si rivolgono contro) probabilmente non regge a dispetto di una promessa elettorale risolutiva, tra l’altro nel breve termine. Le reazioni internazionali vanno tutte in un senso, riflettendo le diverse prospettive sulla gestione dell’immigrazione e dei diritti umani. L’intervento federale ordinato dall’amministrazione Trump a Los Angeles segna un nuovo capitolo nel conflitto ormai radicato tra la Casa Bianca e lo Stato della California. Il presidente ha più volte preso di mira il governatore democratico Gavin Newsom, minacciando in passato il blocco dei fondi per la ricostruzione post-incendi e, più recentemente, annunciando il ritiro dei finanziamenti federali in risposta alle politiche californiane in materia di diritti civili e inclusione.

Nel mirino dell’ex presidente sono finite le posizioni assunte dallo Stato sui disordini nei campus universitari, nonché il sostegno all’inclusione degli atleti transgender nelle competizioni sportive femminili. Secondo analisti come Tom Nichols, editorialista di The Atlantic, il braccio di ferro con la California va ben oltre la questione finanziaria: Trump punterebbe infatti a riaffermare il primato del governo federale, imponendo un controllo più diretto su uno Stato che da solo rappresenta la quarta economia mondiale. A differenza del suo primo mandato – quando l’allora segretario alla Difesa Mark Esper si oppose all’impiego dell’esercito durante le proteste del movimento Black Lives Matter – l’attuale amministrazione non ha mostrato segni di resistenza interna. In assenza di voci critiche, Trump sembra deciso a proseguire sulla linea dura: dove le operazioni dell’ICE provocano proteste, ha annunciato che saranno dispiegate anche le truppe.

Le autorità della California, così come altri Stati occidentali, hanno espresso forte preoccupazione per il rispetto dei diritti civili, in particolare per la sicurezza dei manifestanti e dei giornalisti. Intanto, a livello internazionale, la Cina ha colto l’occasione per criticare duramente gli Stati Uniti. La stampa statale di Pechino ha descritto le proteste come prova della disfunzione del sistema democratico americano, diffondendo immagini dei disordini e dell’uso della forza da parte delle forze dell’ordine. “La discriminazione razziale contro le minoranze è una piaga della società americana. Gli eventi recenti mostrano problemi profondi che Washington dovrebbe affrontare con urgenza” ha dichiarato un portavoce del Ministero degli Esteri cinese.

Vedremo come si evolverà la situazione interna in un già delicato quadro internazionale con un terzo fronte di guerra che sta al momento monopolizzando l’attenzione mondiale a scapito di pressioni interne che, se trascurate, potrebbero creare instabilità ancora maggiori.

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