Referendum 2025: ecco come abbiamo buttato via 87 milioni di euro

Nel fine settimana dell’8–9 giugno 2025 abbiamo assistito a uno spettacolo inquietante: una nazione intera mobilitata per un referendum per il quale si è chiesto di non andare a non votare.

Nessun dibattito pubblico. Nessuna vera campagna d’informazione. Nessuna spiegazione chiara dei quesiti. Solo silenzio, disordine e una strategia chiara: puntare tutto sull’astensione per ottenere il fallimento della consultazione.

Abbiamo speso oltre 90 milioni di euro per stampare schede elettorali che finiranno spazzatura, allestire seggi elettorali nelle scuole, pagare scrutatori, presidenti, segretari, trasportare urne, inviare cartoline all’estero. Tutto per un referendum il cui risultato era deciso fin dall’inizio: non per il Sì, o per il No, ma per l’astensione.

Un referendum dovrebbe essere partecipazione, confronto, scelta popolare. È stato così nel passato: “Repubblica o Monarchia”. È stato così in altri paesi, Brexit: “leave or remain”. Il referendum è, per antonomasia, il momento in cui il popolo decide.

Questa volta, invece, la strategia è stata chiara: non spiegare i quesiti – su licenziamenti, contratti di lavoro e cittadinanza – non fare informazione, non coinvolgere, e l’invito a restare a casa da parte di un Presidente del Consiglio e di un Presidente del Senato che hanno dichiarato pubblicamente: “Non andrò a votare”. Un messaggio che non è né neutrale né istituzionale.

Ma allora perché lo abbiamo fatto?

Se davvero si pensava che i quesiti referendari fossero troppo tecnici e complicati per un voto popolare, la politica aveva uno strumento molto semplice: decidere in Parlamento.

È lì che si legifera. È lì che sugli scranni siedono le persone che ci rappresentano per prendere decisioni nell’interesse del Paese. Abbiamo parlamentari, senatori, commissioni, leggi, emendamenti. E li paghiamo per fare il loro lavoro.

Se l’intenzione era quella di non coinvolgere i cittadini, la classe politica si doveva allora assumere la responsabilità del sì o del no.

L’astensione costa. E costa cara

Il dato dell’astensione non è un successo: è uno spreco di oltre 87 milioni di euro di soldi pubblici.

Stando ai dati pubblicati sul Dossier Referendum 2025 del Ministero dell’Interno e dalla circolare DAIT del 12 maggio 2025 Oltre 61.591 seggi elettorali sono stati allestiti in tutta Italia, da nord a sud.

  • Ogni seggio aveva 1 presidente, 3 scrutatori e 1 segretario: in tutto oltre 307.000 persone dispiegate in campo.
  • Compensi netti: circa 63,4 milioni di euro.
  • Stampa e distribuzione delle schede: in circa 20 milioni.
  • Matite copiative (circa 380.000 pezzi a 0,98 € cad.): circa 400.000 euro.
  • Cartoline per gli italiani all’estero: 23,9 milioni di euro.
  • Seggi speciali (ospedali, carceri): 1.492 unità, costo 276.000 euro.

Il totale ufficiale si aggira su oltre 87,6 milioni di euro, senza tenere conto dei costi per la logistica, il trasporto, le pulizie straordinarie e lo smaltimento dei materiali.

E ora? Tutto nella spazzatura. Letteralmente. Tutto per un referendum che non ha portato ad alcun effetto normativo, perché non si è raggiunto il quorum. Milioni buttati per sentirsi dire di non andare a votare. Abbiamo pagato ben 307.000 persone e sostenuto spese per quasi 90 milioni di euro, per non decidere niente.

Una riflessione necessaria

Serve rispetto per le risorse pubbliche, per le istituzioni, e soprattutto per il popolo sovrano. Quel denaro non è solo “il costo della democrazia”, come qualcuno cercherà di dire. Non lo è quando non c’è davvero la volontà politica di far votare. Non lo è quando l’intero apparato istituzionale boicotta la partecipazione ad un referendum.

Da quasi 24 ore si parla del “fallimento della sinistra”, come se l’astensione fosse la giusta punizione nei confronti di chi lo ha promosso. La verità però è un’altra: ha fallito l’intero sistema politico italiano. Ha fallito la sinistra che ha lanciato un quesito referendario senza costruire consenso, e ha fallito la destra che ha boicottato il voto per non prendersi la responsabilità di decidere.

Quei quasi 90 milioni di euro potevano essere investiti nella sanità, nelle scuole, nei trasporti o in incentivi per le assunzioni, visto che il referendum parlava di lavoro. Invece, sono stati bruciati in una mobilitazione che ha prodotto il nulla. 

Nessuno, nemmeno tra chi promuoveva l’astensione, si è posto la vera domanda: “Quanto costerà (letteralmente) agli Italiani non votare?”. Ciò che è accaduto non è solo un danno morale al cuore della democrazia: è un danno erariale alle casse dello Stato, un danno che pagano tutti, anche quelli che hanno seguito il diktat e sono andati al mare. Questo non è il segno di una democrazia matura. È il segno di una politica irresponsabile che non sarebbe nemmeno in grado di reggere il confronto in un gruppo WhatsApp di genitori di scuola.

Nel frastuono generale, mentre si litiga per difendere l’astensione come una vittoria, qualcuno, tra gli italiani, si è fatto due conti. Ha capito e si è stancato.

Non si chiama un popolo alle urne solo per gettare le schede nella spazzatura. Non si spendono quasi 90 milioni per finta. Non si organizza un processo democratico per poi festeggiare che non sia accaduto nulla, e dire: “Visto? Avevamo ragione! Non avrebbe votato nessuno”.

Ne valeva davvero la pena? Se la risposta è no, la prossima volta si dovrà avere allora il coraggio di non convocare un referendum e di decidere alle Camere. Ma prima di tutto: di non sprecare le risorse di tutti per proteggere la pigrizia politica di molti.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here