Minacciare Mosca e Pechino e, contemporaneamente, aprire le porte a Putin e bloccare gli aiuti all’Ucraina. L’ultima settimana di Donald Trump ha il sapore della schizofrenia geopolitica: un mix esplosivo di retorica muscolare, dietrofront tattici e una verità che – ancora una volta – sta a metà tra ciò che si dice e ciò che si fa.
Donald Trump ha minacciato di bombardare Mosca. Ha aggiunto Pechino nella lista. E poi, nella realtà, ha proposto di inviare Patriot a Kiev ma solo in cambio della pace. O meglio: in cambio della resa. Nel giro di una settimana, l’ex presidente degli Stati Uniti ha costruito una delle operazioni di comunicazione più spettacolari – e più contraddittorie – della sua lunga carriera. Uno show che unisce audacia, ambiguità e strategia elettorale, spacciato per leadership geopolitica. Ma dietro le dichiarazioni da “falco atomico”, si nasconde un assetto ben più complesso, quasi schizofrenico: perché se da una parte Trump si vanta di aver minacciato l’apocalisse nucleare, dall’altra apre al dialogo con Putin e svilisce il fronte ucraino.
L’audio rubato e la diplomazia da teatro
La scintilla è scoppiata con la diffusione di un audio risalente al 2024, pubblicato dalla CNN, in cui Trump – durante un evento privato con alcuni finanziatori repubblicani – si vanta di aver minacciato Vladimir Putin e Xi Jinping. «Se avessi invaso l’Ucraina, ti avrei bombardato Mosca. Non avevo altra scelta», avrebbe detto all’ex agente del KGB. E lo stesso avvertimento sarebbe stato recapitato a Pechino in caso di invasione di Taiwan. L’ex presidente non nasconde compiacimento: «Non mi hanno creduto. Ma poi mi hanno creduto».
Questa dichiarazione, già di per sé esplosiva, sarebbe bastata a scuotere qualunque equilibrio internazionale. E in effetti ha scosso. Ma per pochi istanti. Perché è bastato uno sguardo ai fatti per rendersi conto che la politica estera trumpiana resta intrappolata tra l’enunciazione iperbolica e l’azione inconcludente. Anzi, addirittura contraddittoria. Per ogni parola da falco, un gesto da colomba. Per ogni minaccia bellica, una proposta di compromesso che – nei fatti – legittima le stesse potenze che dice di voler colpire.
La realtà: un’offensiva verbale che copre una ritirata strategica
Mentre il mondo si interrogava sulla credibilità di una minaccia simile – e il Cremlino rispondeva con un’alzata di spalle, ricordando come Trump “abbia sempre parlato in quel modo” – la diplomazia parallela dell’ex presidente prendeva corpo. E prendeva una direzione opposta. Il leader repubblicano si è detto pronto a sostenere l’Ucraina con l’invio di batterie di missili Patriot, ma solo a una condizione: la firma immediata di un accordo di pace con Mosca.
Non si tratta di un’offerta qualunque. Secondo fonti vicine all’entourage trumpiano, quel “patto” avrebbe delle clausole che suonano come una resa condizionata. Si tratterebbe, di fatto, di congelare il conflitto sulla base della situazione attuale sul campo, lasciando alla Russia il controllo dei territori già conquistati nel Donbass e nel sud dell’Ucraina. In altre parole, l’America di Trump si dice disposta a fornire armi a Kiev, ma solo per costringerla a firmare la propria disfatta.
E qui si apre il vero paradosso. L’uomo che dice di aver minacciato Mosca di bombardamenti nucleari è lo stesso che propone una pace che salva Putin. L’uomo che si presenta come il difensore della forza americana è anche quello che suggerisce di accettare l’occupazione russa come fatto compiuto. Una dissonanza che non può essere ignorata.
Il metodo Trump: iperbole e contraddizione come marchio di fabbrica
Trump non è nuovo a questa dinamica. Già durante il suo primo mandato, aveva mescolato provocazioni pubbliche e diplomazia segreta. Con la Corea del Nord alternò minacce di “fuoco e furia” a strette di mano con Kim Jong-un. Con l’Iran bombardò la retorica ma non il suolo. Con la NATO agitò lo spettro del ritiro, salvo poi rivendicare di averla “rafforzata”.
Il tratto distintivo è sempre lo stesso: l’uso della parola come arma strategica. Non per preparare il terreno a una decisione politica, ma per influenzare la percezione del potere. Trump non parla a Mosca o a Pechino. Parla a casa. Parla alla sua base elettorale, all’elettorato bianco impoverito, ai falchi repubblicani che vogliono vedere in lui un “uomo forte”. Ma le sue parole – anche quando pensate per uso interno – producono onde d’urto globali. E quando alle parole non seguono atti coerenti, il risultato è un vuoto di credibilità.
Le reazioni: Mosca non trema, Kiev si preoccupa, Pechino osserva
A Mosca, le dichiarazioni di Trump sono state accolte con freddezza e sarcasmo. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha liquidato l’audio come “non confermato”, aggiungendo che Trump “usa un linguaggio particolare, come sempre”. Un modo elegante per dire che nessuno lo prende troppo sul serio. Né come alleato, né come nemico.
Ben diversa la reazione a Kiev. L’Ucraina ha letto le mosse di Trump con profonda preoccupazione. L’idea di una pace negoziata che prevede concessioni territoriali viene vista come una resa mascherata, un colpo al principio della sovranità nazionale. Zelensky – pur evitando lo scontro diretto con l’ex presidente – ha ribadito che “nessuna pace è possibile senza il ripristino dei confini del 1991”. Ma sa bene che, se Trump dovesse tornare alla Casa Bianca, quella linea rossa potrebbe diventare solo un ricordo.
Pechino, da parte sua, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali. Ma fonti interne al Partito Comunista cinese hanno fatto trapelare una lettura attenta, quasi divertita: Trump minaccia oggi, ma domani potrebbe chiedere un accordo commerciale. Per Xi Jinping, il vero rischio non è l’America muscolare, ma l’America imprevedibile. Ed è su questa imprevedibilità che la Cina – così come la Russia – sta costruendo la propria strategia a medio termine.
Una leadership pericolosa per la sicurezza globale
La dissonanza tra minacce e azioni non è solo un problema di stile. È una questione strategica. Se gli Stati Uniti dicono una cosa e ne fanno un’altra, se minacciano la guerra per poi offrire accordi svantaggiosi ai propri alleati, se parlano di deterrenza ma agiscono come potenze in ritirata, allora il mondo non è più unipolare. È multipolare, ma caotico. E questo caos ha un nome e un volto: Donald Trump.
La sua visione dell’America non è quella di una guida globale, ma di un’azienda da proteggere a colpi di slogan. È una politica estera “transazionale”, dove gli interessi prevalgono sui valori, dove la stabilità conta meno dell’immagine. E dove ogni crisi può diventare una campagna di marketing personale.
Il problema è che in gioco non ci sono i sondaggi, ma la pace mondiale. Ogni parola pesata male, ogni minaccia non credibile, ogni pace costruita sul compromesso del più debole, rischia di disintegrare ciò che resta dell’equilibrio internazionale. E allora la domanda che dobbiamo porci non è se Trump sia credibile, ma quanto il mondo può permettersi un altro ciclo di diplomazia trumpiana.
La minaccia non è il bombardamento, ma l’incoerenza
A conti fatti, Trump non bombarderà Mosca. Non bombarderà Pechino. Non ne ha la volontà, forse nemmeno il coraggio. Ma potrebbe bombardare – e lo sta già facendo – la credibilità degli Stati Uniti nel mondo. E questo, in una fase storica in cui le democrazie sono sotto attacco, è il vero rischio geopolitico.
Perché quando l’unico superpotere rimasto smette di essere prevedibile, smette anche di essere affidabile. E in un mondo senza certezze, le autocrazie vincono per default. Non con le bombe, ma con la pazienza.