1985: quarant’anni fa l’ultimo Calvino

A Siena, il 19 settembre 1985, la penna di Italo Calvino si arresta: pensiero resta in silenzio, la creatività gela e il lavoro s’interrompe a metà. Termina con lui un’era singolare: un tempo che ha visto mutare ordini costituiti per nuove correnti; stagione di progresso, uomini nuovi e altri dolori, in uno spazio che cambia e mantiene contraddizioni. Una fase inedita, ma la sola possibile, a consacrare Calvino un classico in vita e contemporaneo fra i posteri: lettori che, quarant’anni dopo, sentono la tensione di una mente sbilanciata al futuro ma lucida, attuale.

È difficile fare un’analisi dell’autore e stabilire a quale tempo sentisse di appartenere: era un uomo del presente – partigiano, politicamente impegnato, sensibile alle difficoltà contingenti – eppure non rinunciava al passato, specie quando da scrittore cercava la struttura perfetta di Ariosto, gli elenchi di Plinio e la nomenclatura puntuale di Ovidio. Sul futuro lascia luci ed ombre; penna e pensiero sono in anticipo sui tempi ma non nega l’imbarazzo e i limiti di alcune opere deboli, per sua ammissione, a resistere al tempo. Così, di frequente, il poeta è avvolto in una nube che impedisce di vedere contorni e, se pur brevi bagliori di sereno, non si rivela al pubblico; anzi, si compiace del moto caotico e fuggente che investe, da prima, la sua persona.

“Cercate pure dentro di me, non troverete nulla.” Questa frase ha il gusto di un apologo beffardo e divertito; è soddisfatto, il suo profilo è senza definizioni, etichette, certezze. Può dirsi fuori dalla temuta autobiografia, un genere che Calvino definisce impossibile poiché prossimo all’esibizione di un io compiaciuto. L’autore sanremese sostiene la scrittura intima e soggettiva, se un piglio critico sospende la ceca celebrazione per l’analisi: la riflessione che avanza sul tavolo delle patologie e la loro dissezione. 

Fra i caratteri esaminati Calvino si ritrova nel signor Palomar (Einaudi, 1983); entrambi calmi, robusti, un aspetto dove “goffaggini della mente e del corpo” si corrispondono. La descrizione fisica è l’unica parentesi dove l’autore concede parole sincere, sospende le caricature false ed esagerate cui era solito nascondersi. Quella stessa eleganza sgraziata, francamente ammessa, trova conferma nei ricordi dei colleghi che lo vedevano arrivare in redazione con “giacche un po’ striminzite, cravatte larghe anni ’50, dai motivi geometrici e dai toni smorti.

Ai colori tenui degli indumenti, Calvino impone un volto dall’espressione marcata che conferisce un’aria “imprecisa, superficiale, recalcitrante”. Del 1950 lavora per Einaudi con ruolo d’influente esterno-interno, una voce autorevole ma presente-assente. Si fa vedere poco, non salta le riunioni del mercoledì, ma preferisce disperdere le tracce; inutile chiedere dov’è, si trova altrove, col volto seminascosto e quel sopracciglio alzato che ribadisce che lì, nelle vicinanze, provvede a tutto.

Occuparsi d’ogni cosa richiede disciplina; perciò, per non mancare nessun appuntamento, si fa tenere a giudizio dalla mente ordinatrice. Alfonso Berardinelli ricorda un Calvino che ‘non si commuove e non commuove mai. Italo maneggia le emozioni con cautela perché sono poco utili e anzi fuorvianti ai fini della conoscenza, che è il vero obbiettivo della letteratura.’

Nel profilo che l’autore ha costruito di sé, ci sono sfumature che tradiscono un’altra natura da quella esibita; da editore è meno algido e più confidenziale, tuttavia, è autentica la ‘perplessità sistematica, di sconcerto’, che lo definisce come scrittore.

Prima di combinare parole e, da qui, farne dei libri, inizia a maneggiare le immagini; nelle figure trova il moto del racconto, la visione cela linee segrete, le geometrie che governano le impalcature. Calvino intende la letteratura come costruzione di elementi fissi combinati all’infinito, utili per trasmettere un modo di guardare, di stare al mondo, tentando di dare ordine e senso generale.

La prosa dell’autore fermenta da un’ansia di conoscenza, un servizio di utilità sociale, filantropico, che il poeta trova nel padre: professionista botanico da cui eredita la riflessione economica dell’agronomo. Pertanto, rifiuta lo spreco, l’ossessione alla perdita comporta l’addio al teatro, l’apologo, finché nei versi esaudisce il desiderio di ‘gabbie e ritmi obbligati’. Calvino parla di sé come scrittore quando inizia la guerra, lo stesso evento che lo definisce come uomo. Nel 1950 e il conflitto alle spalle, ammette ‘di aver perso baldanza e si essere sopraffatto dalle perplessità.’ Da qui, com’era avvenuta per la biografia, è impossibile costruire un profilo lineare dello scrittore; tuttavia, se in precedenza mentiva per sottrarsi alle definizioni, ora la confusione generata è tutta sincera. S’affretta in discorsi complessi che spesso ritratta, li nobilita ma poi scorge difetti e torna in dietro, ai principi di sempre: sono sbiaditi ma non li abbandona. L’ansia di riflessione è tanto forte da occupare un intero capitolo del primo romanzo: Il sentiero dei nidi di ragno (Einaudi, 1947). Di quell’inserto, tanto criticato all’epoca, Pavese ne coglie l’essenza: ‘evidentemente il partigiano Santiago aveva bisogno di dirsi e di chiarirsi delle cose.’

Nel 1952 si abbandona al dubbio e alle ritrattazioni, detesta le affermazioni recise e l’esibizionismo della certezza: di fatto, la sostanza che genera il Visconte Dimezzato (1952) in cui si consuma la sconfitta, se pur breve, del mito ‘completo-perfetto’. ‘Solo diventando la metà di sé stessi, si capiscono cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi.’

Un paio d’anni dopo, allestisce il cantiere filologico di Fiabe Italiane (1954): torna l’amore per la struttura, degli elementi finiti da combinare con ordine ma senza limiti. Il desiderio di forma si accende con Palomar (1983) e Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979). Il primo ‘all’insegna dantesca del numero tre: tre sezioni, che contengono tre capitoli, che contengono tre paragrafi’; il secondo, invece, ‘non uno ma dieci romanzi, uno dentro l’altro, e tutti dentro lo stesso.’

È una prosa ‘intessuta di dettagli, di particolari accumulati maniacalmente, come se solo tentando di colmare ogni spazio vuoto, si potesse scongiurare il corrosivo attacco della distruzione.’ È un metodo lacunoso, la letteratura perderà per l’ambizione di rappresentare la complessità del reale e le infinite relazioni sottese, eppure, una forza remota resiste allo sfacelo; torna la forma “come principio e fine dell’esperienza umana.

Infine, c’è un Calvino editore; così come l’uomo e lo scrittore, è complesso definirlo con esattezza e lui, ovviamente, si compiace del disordine che ne impedisce un profilo.  La prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno (1964)è un fascio di dubbi ondeggiante; ci sono anafore, cesure, incipit repentini. L’io scrivente incalza una voce narrante che rifrange e disperde ogni traccia di Calvino; ma, nel testo più oscuro arriva un impeto di sincerità: ‘è al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio.’ È un editore deciso con i titoli degli altri: procede limpido, motiva scelte e rinunce con tono confidenziale e precisione artigianale.

Arriva il 1984, una lettera da Harvard lo designa relatore per un ciclo di conferenze; è il primo italiano in quel ruolo, tra i precedenti Eliot, Borges, Paz. Deve preparare sei lezioni sul tema vasto compresso nel generico Poetry; si affida agli strumenti di sempre: opposizioni, elenchi, combinazioni binare e ritmo teso. Non regala certezze, ma riflessioni ‘nate dalla pratica del mestiere, dalle tante letture,’ dalla composizione spiegata in sei generi diversi. Calvino non è mai stato così diretto, specie nella prosa nozionistica d’autore, ma avverte l’urgenza di un tempo che sta per finire. Di fatto, la morte improvvisa il 19 Settembre 1985, per quanto crudele con l’uomo, ha realizzato una massina d’autore: gli scritti teorici, una volta terminati, sono chiusi per sempre; metterci Una pietra sopra (1980) e non riprenderli più.

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