Al Teatro India di Roma, Davide Enia è in scena con la sua ultima creazione “Autoritratto”, uno spettacolo che affonda le radici nella storia di Cosa Nostra in Sicilia, e in particolare a Palermo. L’opera, che ha debuttato il 20 maggio e che resterà fino al 1° giugno, offre un’analisi intima e collettiva di oltre trent’anni di vicende legate alla mafia.
Lo spettacolo riavvolge il filo partendo dai ricordi di Enia, dall’attentato di Capaci del 23 maggio 1992, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta, fino al tragico rapimento e omicidio di Giuseppe Di Matteo, il bambino figlio di un collaboratore di giustizia tenuto prigioniero per 778 giorni e poi barbaramente ucciso e sciolto nell’acido.
Attraverso il cunto, la parola, il corpo e il dialetto, l’attore palermitano esplora la “nevrosi” dei suoi concittadini nei confronti della mafia. “Per diverse ragioni, da noi la mafia è stata minimizzata, sottostimata, banalizzata, rimossa o, al contrario, mitizzata” spiega Enia. “Ovvero: non è mai stata affrontata per quello che è”.
Nelle sue note di regia, Enia rivela un’assenza di memoria personale riguardo al 23 maggio 1992: “Io non ho nessun ricordo del 23 maggio 1992. Non ricordo dove fossi, con chi, quando e dove ho appreso la notizia della bomba in autostrada. I miei parenti, i miei amici, i miei compagni, tutte le persone che conosco hanno un chiaro ricordo di quel giorno. Io ho un vuoto che non si riempie“. Questo vuoto, una rimozione emotiva, diventa il punto di partenza per esplorare la nevrosi collettiva della Sicilia nei confronti della mafia.
“In Sicilia praticamente tutti abbiamo avuto, almeno fino alle stragi, un rapporto di pura nevrosi con Cosa Nostra,” spiega Davide Enia, sottolineando come l’aver per tanto tempo minimizzato e rimosso la mafia dalla sfera della coscienza collettiva e condivisa, essa sia stata inconsciamente introiettata, influenzando comportamenti e processi decisionali. “Questo è quindi uno dei problemi che abbiamo con Cosa Nostra: in una maniera dolorosa e sconcertante, a volte la mafia rappresenta uno specchio della nostra vita familiare, dei nostri processi decisionali e operativi, del nostro modo di osservare il mondo e intendere le relazioni, del nostro rapporto con la religione”.
Per i palermitani, la mafia è una costante, fin dalla tenera infanzia. “Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando a casa da scuola. Conoscevo il giudice Borsellino, abitava di fronte casa nostra, sono cresciuto giocando a calcio con suo figlio. E padre Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia, era il mio professore di religione al liceo”.
La difficoltà nel nominare il desiderio e la conseguente “dittatura del silenzio” (’a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice – la miglior parola è quella non detta) si configurano come la prima soglia dell’omertà. Affrontare Cosa Nostra diventa per Enia un processo di autoanalisi. E, di riflesso, un autoritratto.