Dal silenzio radio alla sirena di guerra. L’attacco annunciato di Israele all’Iran riaccende i fari sull’asse più instabile della geopolitica globale. E se ci stessimo tutti abituando al rischio come fosse una notifica push?
Gli occhi del mondo si spostano a Est, là dove le mappe scolorano e la diplomazia balbetta. Israele, secondo quanto riferito da media internazionali e fonti americane, avrebbe ufficialmente lanciato operazioni offensive contro obiettivi iraniani. L’Iran, dal canto suo, annuncia “una risposta forte e distruttiva”. E mentre la tensione sale, gli Stati Uniti evacuano il personale diplomatico dalle ambasciate in Medio Oriente.
Ciò che colpisce, però, non è tanto l’attacco in sé. È la consapevolezza — sempre più fredda — che questo giorno sarebbe arrivato. L’attacco era già stato annunciato. Lo scontro era già previsto. Ma ci siamo davvero chiesti dove porta tutto questo? O, come al solito, aspettiamo che i titoli scrollino via da soli?
Iran vs Israele: una storia d’amore mai sbocciata (e mai sepolta)
Per capire come siamo arrivati fin qui, bisogna rispolverare qualche pagina di storia. Iran e Israele erano alleati — sì, alleati — fino alla rivoluzione islamica del 1979. Da allora, Tel Aviv è diventata per Teheran il nemico sionista, l’incarnazione di un’Occidente da abbattere o contenere.
La tensione è cresciuta silenziosamente, su fronti multipli e con guerre per procura:
- l’Iran sostiene Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, gli Houthi in Yemen;
- Israele colpisce obiettivi iraniani in Siria e oltre, spesso con attacchi mirati e cyber offensive (come il caso di Stuxnet, ricordate?).
Eppure, per decenni, ci si è mossi in uno spazio “grigio”, fatto di tensioni ma senza guerra diretta (chiamiamola pure “guerra ombra”). Fino ad oggi.
Le vere cause del conflitto: nucleare o potere regionale?
Il casus belli più sbandierato è il programma nucleare iraniano. L’IAEA, solo pochi giorni fa, ha certificato che Teheran è ufficialmente inadempiente agli obblighi del Trattato di non proliferazione. Israele non ha mai nascosto il suo timore che l’Iran arrivi alla bomba. E l’Iran, d’altro canto, non ha mai digerito l’idea che Israele sia l’unico attore nucleare non dichiarato dell’area.
Ma sotto la superficie del nucleare c’è molto di più.
L’Iran non ambisce solo alla bomba: ambisce al ruolo di superpotenza regionale. E Israele è, da sempre, l’unico vero ostacolo. Quindi la domanda è: è davvero il nucleare il problema? O è il prestigio strategico?
E poi c’è la cyber dimensione, quella che non si vede ma fa danni reali.
Nel 2010, comparve un nome che cambiò la storia: Stuxnet.
Un malware silenzioso, sofisticato, e soprattutto chirurgico: progettato da USA e Israele (così riferirono numerose fonti specialistiche), colpì le centrifughe iraniane a Natanz, rallentando il programma nucleare senza bisogno di bombe.
Risultato? Circa 1.000 centrifughe fuori uso, danni invisibili, nessuna guerra.
E allora ci si chiede: se puoi colpire senza farti vedere, perché tornare alla guerra convenzionale?
Forse perché oggi l’obiettivo non è solo sabotare, ma dimostrare. E oggi Israele ha scelto di farsi vedere.
La posizione (ambigua) di USA e UE
Washington, oggi, sta camminando sul filo. Gli Stati Uniti non vogliono un’altra guerra in Medio Oriente. Hanno già abbastanza gatte da pelare con la Cina, l’Ucraina e l’America stessa. Ma possono davvero impedire a Israele di colpire?
Ufficialmente, il governo americano “non supporta un’azione militare unilaterale”, ma intanto:
- ritira diplomatici,
- invia messaggi ambigui,
- e si prepara a contenere le conseguenze.
Tradotto: “noi non vi spingiamo, ma se proprio volete, non vi fermeremo.”
L’Europa, invece, appare (come spesso accade) in affanno. Appelli alla “moderazione”, difesa del diritto internazionale, sostegno all’IAEA. Ma chi ascolta davvero Bruxelles nel Levante?
E intanto la domanda si insinua: può esistere una diplomazia che non sa scegliere?
Ipotesi sul futuro: deterrenza o disastro?
Cosa succederà adesso? È la domanda che rimbalza nei centri analisi, nei ministeri degli esteri e – a tratti – perfino tra gli algoritmi di Twitter. Ma nonostante la drammaticità del momento, le opzioni sul tavolo non sono infinite. Sono tre. Solo tre. Ed è qui che la complessità geopolitica si rivela per quella che è: una partita a scacchi con pedine esplosive.
Scenario 1 – L’attacco resta simbolico: la guerra dei segnali
Israele colpisce, sì, ma solo quanto basta a mandare un messaggio. Un’azione chirurgica, mirata, limitata nel tempo e nello spazio. Laboratori, centri di comando, forse un deposito di missili a Isfahan. Lo scopo? Dimostrare che la linea rossa esiste – e che Tel Aviv è ancora in grado di tracciarla, non solo di proclamarla.
L’Iran, prevedibilmente, risponde. Ma lo fa attraverso i suoi tentacoli “ufficialmente non ufficiali”: Hezbollah nel sud del Libano, Hamas da Gaza, le milizie sciite in Siria o Iraq, gli Houthi dallo Yemen.
Il risultato è una “escalation controllata”: fuoco incrociato, vittime, condanne ONU e… la solita montagna diplomatica che partorisce il solito topolino.
In altre parole, il mondo tira un sospiro. Un sospiro piccolo. Mezzo respiro, forse. Ma abbastanza per rimandare la guerra vera.
E a quel punto, una domanda resta sospesa: se la guerra diventa routine, può ancora chiamarsi emergenza?
Scenario 2 – Escalation a catena: il Medio Oriente si infiamma (di nuovo)
Questo è lo scenario che tutti temono ma che pochi, in cuor loro, escludono davvero.
Tel Aviv colpisce in profondità. Le centrali nucleari vengono danneggiate seriamente, la base di Natanz è ridotta in macerie, e – ipotesi meno remota di quanto si pensi – viene eliminato un comandante iraniano di alto livello.
A quel punto, Teheran non può più accontentarsi della retorica. Reagisce con tutta la sua capacità offensiva: non solo cyberattacchi, non solo proxy, ma missili balistici diretti verso Israele, verso il Golfo, forse verso basi americane.
La guerra per procura diventa guerra simmetrica. Hezbollah apre un nuovo fronte dal Libano, Hamas riaccende Gaza, gli Houthi colpiscono le rotte petrolifere del Mar Rosso, e i Pasdaran (i Guardiani della Rivoluzione) diventano protagonisti dichiarati.
Gli Stati Uniti, coinvolti loro malgrado, sono costretti a reagire per difendere i propri asset. La NATO si divide tra falchi e colombe. Il petrolio schizza oltre i 200 dollari al barile. L’Europa trema. La Cina osserva.
E così, in meno di 72 ore, il Medio Oriente si trasforma (di nuovo) nel cuore sismico del mondo. Solo che questa volta le onde d’urto arrivano ovunque, e nessuno può dire “non ci riguarda”.
Ma la vera domanda è: davvero pensavamo che un equilibrio fondato sulla paura potesse reggere in eterno?
Scenario 3 – Negoziato sul filo del baratro: diplomazia post-traumatica
C’è poi lo scenario che piace ai realisti e fa ridere i cinici: quello in cui, proprio quando la situazione sembra precipitare, la diplomazia ritorna a galla come un tappo di sughero.
Magari grazie a una telefonata turca, una proposta cinese, o una mossa teatrale dell’ONU. Magari attraverso un cessate il fuoco tecnico, con condizioni vaghe, promesse ambigue e monitoraggi parziali.
L’Iran ottiene che Israele si fermi. Israele ottiene che l’Iran si impegni a rivedere (qualunque cosa significhi) i livelli di arricchimento dell’uranio. Gli Stati Uniti possono dire di aver evitato il peggio. E l’Europa, beh… può tornare a invocare “la centralità del diritto internazionale”.
Ma è un successo? O solo un pareggio tra due giocatori che sanno che perdere significherebbe bruciare l’intero tavolo?
Satira (amara) e conclusione: siamo tutti spettatori o solo anestetizzati?
C’è una verità difficile da ammettere: ci siamo abituati alla guerra. O, peggio ancora, ci siamo abituati all’idea che ogni guerra altrove sia parte del normale flusso delle notizie.
Una guerra in Medio Oriente? Ah, un’altra? L’ultima era due scroll fa.
Ma allora chiediamoci:
- Se un attacco era previsto e avviene, è davvero un punto di rottura?
- Se la diplomazia resta muta, o peggio ancora si limita ai comunicati stampa, ha ancora senso parlare di ordine mondiale?
- Se la minaccia nucleare non basta più a frenare, cosa resta? Il panico? Il cinismo? Il silenzio?
Israele colpisce. L’Iran risponde. Gli Stati Uniti osservano. L’Europa commenta. E noi?
Noi, come sempre, scrolliamo.
Poi magari ci indigniamo.
Poi ci distraiamo.
Poi torniamo a scrollare.