Bring Her Back, il nuovo incubo dei fratelli Philippou

Cinema horror che è industria, visione e potere. Ma in Italia è ancora tabù

A 32 anni, i fratelli Philippou — cresciuti facendo video su YouTube sotto il nome RackaRacka, robademenziale, folle — hanno già firmato due film-capolavoro. Talk to Me è diventato un fenomeno globale, Bring Her Back ne è la consacrazione definitiva. Due opere diverse, visionarie, radicali, entrambe figlie di un’identità artistica libera, senza mediazioni né compromessi

Lo stomaco si chiude e il cuore si apre, Bring Her Back è un racconto estremo, sadico e apocalittico su quanto il dolore ci rende vulnerabili. Con una brutalità onesta e radicale è un cinema che ha il coraggio di farsi discorso sociale e psichico, discorso che prova a ridefinire i confini tra amore e follia, tra cura e controllo.

Andy (Billy Barratt), 17 anni, e Piper (Sora Wong), sua sorellastra cieca, sono colpiti dalla morte del padre, unico loro affetto rimasto. Ancora troppo giovane per ottenere la tutela di Piper, i due vengono affidati dagli assistenti sociali ai a Laura (Sally Hawkins), ex psicoterapeuta infantile devastata dalla perdita della figlia cieca, Cathy, annegata anni prima nella piscina della sua proprietà. Nella casa è ospite anche Ollie (Jonah Wren Phillips), un bambino muto e dall’aspetto inquietante. Con il passare dei giorni, Andy capisce che Laura non è solo afflitta dal lutto, ma che sta cercando di riportare in vita la figlia attraverso un oscuro rituale. 

Tra i mille pregi, spicca la scelta del cast, personalità artistiche e corpi perfetti, tra cui troneggia Sally Hawkins. La sua Laura non è mai ridotta a mostro: è umana, tragica, patetica. Il suo dolore è reale e palpabile, e per questo, quando esplode in violenza, è ancora più sconvolgente. È lutto che diventa possessione. Sora Wong è una rivelazione assoluta: un’attrice ipovedente, al debutto, che porta in scena una Piper dolce, forte, vera. Billy Barratt, nei panni di Andy, è un fratello maggiore credibile, lucido e affettivo, un personaggio scritto con intelligenza rara per il genere. E infine, Jonah Wren Phillips nei panni del piccolo Ollie è una presenza inquietante che buca lo schermo, dando vita ad alcune delle scene più spaventose del film (una scena con un pezzo di melone non vi farà dormire per giorni).

Come accadeva in Martyrs di Pascal Laugier, la carne straziata diventa medium filosofico, veicolo di un’esperienza-limite che non mira allo shock fine a sé stesso, ma a scardinare la percezione stessa dello spettatore, costringendolo a rimanere dentro il trauma, senza vie di fuga. La regia è fredda e clinica. L’aspect ratio verticale, stretto e opprimente, isola i volti, li sfoca e li schiaccia, rendendo ogni ferita visiva e psichica inesorabile. La macchina da presa non consola ma tiene in ostaggio emotivo. Bring Her Back non avrà la compattezza narrativa di Talk to Me, né la sua lucidità formale o quell’istinto quasi naturale per la costruzione di un mondo serializzabile, da saga. È meno “contenibile”, meno preciso, ma ha una dolenza rara, una raffinatezza brutale che lo avvicina più al cinema del trauma che a quello del franchise. Un horror che non cerca di piacere, ma di restare sotto pelle.

I Philippou sono australiani, figli della working class, autodidatti. Eppure oggi sono al centro dell’horror mondiale. In Italia, se vieni dal basso, resti in basso. Se non ti affili a un barone, non ti muovi. Se non aderisci al “buon gusto”, vieni deriso, ridicolizzato. In Italia nessuno capisce che l’horror è un mercato che fa soldi. Che i film di paura sono gli unici che il pubblico giovane ancora va a vedere in sala. Talk to Me è costato poco più di 4 milioni di dollari e ne ha incassati quasi 100. Plusvalenze impensabili nel nostro paese. E Bring Her Back, nonostante la sua radicalità, sta facendo un buon percorso. In Italia di talento ce né tanto, ma ogni idea passa prima dal filtro del produttore “esperto”, del finanziatore pigro, del critico moraleggiante. Ti tolgono il coraggio, l’istinto, la voce. Vogliono progetti rassegnati, non film vivi. I Philippo , se fossero stati italiani, starebbero ancora cercando fondi su Instagram. O facendo montaggi per altri. O frustrati dietro a lavori che non li rappresenta, con la testa piena di idee.

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