Femminicidi: scie di sangue silenziose e donne indifese

Romina De Cesare, 36 anni; Alice Scagni, 34 anni; Angela Avitabile, 62 anni; Anna Borsa, 30 anni. Questi sono solo alcuni dei venti nomi di donne che sono state uccise dall’inizio del 2022. 

Venti donne, le cui vite sono state brutalmente sottratte da uomini, nella maggior parte dei casi loro partner. Secondo il report del servizio analisi criminale del Ministero dell’Interno, infatti, dall’inizio dell’anno fino al 6 marzo 2022, delle 13 vittime donne, 12 sono state uccise proprio dai loro (ex) partner. 

Il tempo scorre e il numero delle donne che perdono la vita in questo modo non fa che aumentare costantemente. Perché? Perché sono donne, del tipo che agli uomini autoritari non piace; il tipo indipendente, che li fa sentire piccoli e insignificanti. E allora bisogna prevalere, bisogna farle stare “al posto loro”. Bisogna tenerle a bada e, quando proprio non ci si riesce, eliminarle. Questo è il femminicidio, una vera e propria piaga sociale, un massacro… ma i numeri dove sono? 

A partire dal 2017, a cadenza annuale, il ministero della Giustizia avrebbe dovuto fornire all’Europa i dati sulle vittime di violenza domestica e, in particolare, sulle vittime di femminicidi. Impegno che non è mai stato portato a termine con costanza: questi dati non si trovano, perché non ci sono. Nel 2017 è stata istituita la prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio. Lo scopo era quello di svolgere indagini sul fenomeno, determinandone dimensioni, dinamiche, ricorrenza delle denunce da parte delle vittime, il tipo di legame esistente  tra vittima e assassino. Tutti dati che, non solo sono richiesti dalla Convenzione di Istanbul ma che – se raccolti – vanno a fare luce su un fenomeno che sta diventando sempre più dilagante, preoccupante e pericoloso. 

Se è vero, però, che l’Italia non ha mai adempiuto ai suoi doveri in questo campo, è anche vero che una buona notizia c’è: inizierà a farlo per davvero, grazie a una legge – votata da Camera e Senato –  che si occuperà di assicurare l’effettiva raccolta e lavorazione dei dati sulla violenza contro le donne. 

La senatrice e presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, Valeria Valente, afferma che «la legge prevede che siano modificati i sistemi di raccolta dati per integrare le informazioni relative alla relazione tra autore e vittima della violenza, alla tipologia di violenza esercitata (fisica, sessuale, psicologica o economica) e alla presenza di figli e figlie». 

Si tratta di un tema delicato, spinoso, che vede l’Italia in una brutta posizione. Lo scorso 7 aprile, infatti, la Corte Europea Dei Diritti Dell’Uomo ha condannato – di nuovo – il nostro Paese come «inadeguato nella tutela delle donne che denunciano». Il caso a cui si è fatto riferimento per tale sentenza è il caso Landi contro Italia. La vicenda è accaduta nel 2018 a Scarperia, in provincia di Firenze, quando fu un bambino a perdere la vita per mano di un padre violento, il quale aveva tentato di uccidere anche la moglie e l’altra figlia senza, tuttavia,  riuscirci. La gravità della vicenda emerge nella suddetta sentenza, secondo cui «i procuratori sono rimasti passivi di fronte ai gravi rischi che correva la donna e con la loro inazione hanno permesso al compagno di continuare a minacciarla e aggredirla». 

Come sempre, la pericolosità della situazione la si comprende appieno solo se è qualcuno a rimetterci la vita (in questo caso donne e, purtroppo, anche bambini). 

Troppe volte, di fronte alle poche denunce delle donne, la reazione dall’altra parte è talmente disinteressata da far paura. Quante volte le violenze riportate sono state liquidate come meri conflitti familiari? Quante volte l’unico “provvedimento” è stato di consigliare alle donne di “far pace col marito”? Tante, troppe. 

I provvedimenti – ce lo dicono i numeri delle vittime – sono scarsi e inadeguati: il mancato intervento da parte delle autorità non è che una delle cause che portano al protrarsi di queste violenze che, inevitabilmente, porteranno all’ennesimo massacro. 

Incredibilmente alta, poi, è la percentuale di donne anziane, vittime di femminicidio. Solo nel 2021, secondo l’Osservatorio femminicidi di Repubblica, il 35% delle vittime aveva un’età superiore ai 65 anni.

In questo caso si parla di “femminicidi altruistici o pietosi”, definizione poco felice e messa in discussione dalla stessa Commissione di inchiesta parlamentare. Come afferma la magistrata Paola di Nicola, si tratta spesso di omicidi-suicidi che vengono «archiviati senza indagini […] senza capire se ci sia stata invece una storia di violenze o sofferenze patite dalla donna e di che genere». Le vittime anziane, poi, vengono spesso dipinte dai loro assassini come le responsabili di ciò che succede, di solito utilizzando la scusante di una presunta malattia delle vittime stesse, la quale viene utilizzata come movente dai mariti che, “non sopportando oltre le sofferenze delle mogli”, si spingono all’assassinio per risparmiare loro ogni pena. Il fenomeno merita una particolare attenzione perché, secondo alcuni, non va nemmeno fatto rientrare nella categoria “vera e propria” del femminicidio. Questo perché, come spiega Pina Lalli, referente dell’Osservatorio di ricerca sul femminicidio all’Università di Bologna, «sono delitti che non fanno rumore, che la cronaca segue meno […] le donne non sono giovani e carine e non hanno foto sui social e perché il movente appare in fin dei conti accettabile: non ce la faceva più a occuparsi di lei, non voleva vederla soffrire». 

Responsabile della disinformazione in materia, dunque, è anche il modo in cui la stampa decide di raccontare questo tema, andando a prediligere le storie più “avvincenti” e lasciando da parte quelle considerate poco appetibili. 

Sono omicidi silenziosi ma soprattutto, quando le donne decidono di non restare in silenzio, arrendendosi alla condizione di vittime indifese,  inascoltati.

Sono scie di sangue che non smettono di scorrere, nell’indifferenza e nel voltafaccia generale.

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