Greenwashing: sostenibilità di facciata

L’ambiente è sicuramente uno dei temi più dibattuti degli ultimi anni. La sensibilizzazione alla cura della natura ha portato molte compagnie a diventare più eco-friendly, proponendo linee sostenibili. Molte di queste aziende hanno buoni intenti ma se tutto questo fosse una facciata? Non si tratterebbe altro che di  “green washing.

Il termine è una sincrasi delle parole green (verde) e washing (lavare) che richiama il verbo to whitewash (in senso proprio “imbiancare” ma, in senso esteso, “nascondere”). Il neologismo sta ad indicare delle strategie di marketing adottate da imprese e aziende, le quali dimostrano un attaccamento all’ambiente puramente di facciata. Tutto questo impegno ambientale è fasullo e volto unicamente a migliorare l’immagine dell’azienda ed attirare utenti all’acquisto.

Il primo ad utilizzare tale termine fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld, nel 1986. Westerveld condannò la pratica delle catene alberghiere le quali, facendo leva sull’impatto ambientale, invitavano gli ospiti al lavaggio della biancheria e ad evitare il consumo di asciugamani. In realtà, era tutto legato ad un risparmio economico. Molte aziende utilizzano questa strategia già dagli anni ‘90, quando alcune aziende petrolifere si spacciavano come ecologiche allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da pratiche tutt’altro che responsabili.

Il Greenwashing attua diverse pratiche di marketing, come ad esempio una comunicazione scorretta, attraverso un linguaggio volutamente omissivo; i dati che vengono forniti non risultano certificati da organi autorevoli; le informazioni sul prodotto non sono precise, così da confondere il consumatore; vengono inserite etichette false o certificazioni contraffatte e infine, vengono riportate asserzioni ambientali scorrette.

Molti colossi, negli anni, sono stati criticati per le loro linee non propriamente green ma spacciate come tali. Celebri sono gli esempi che riscontriamo nel tanto discusso settore del fast-fashion. Questi brand sfornano, infatti, seguendo i trend del momento, delle collezioni “verdi” e “responsabili” utilizzando, invece, materiali insicuri e dannosi.

Nel giugno 2021, la multinazionale Coca-Cola, già dai primi anni 2000 al centro di controversie legate ai temi della sostenibilità, è stata citata in giudizio dall’Earth Island Institute, un’organizzazione ambientalista senza scopo di lucro, con l’accusa di fare marketing ingannevole, pubblicizzando come sostenibili i tappi e le bottiglie prodotte. Peccato che l’azienda generi quasi 2,9 milioni di tonnellate di rifiuti plastici all’anno.

Recentemente, il Concerto del Primo maggio è stato scenario di proteste da parte di Greenpeace. Come riportato da Il Giornale, i manifestanti si sono scagliati contro lo sponsor ENI, le cui politiche di riduzione dell’impatto ambientale non sarebbero altro che una strategia di greenwashing. Già durante il Festival di Sanremo gli attivisti si erano presentati fuori dal teatro Ariston, protestando e muovendo le medesime accuse. Come dichiarato da Federico Spadini, di Greenpeace: “La propaganda tossica delle aziende dei combustibili fossili dovrebbe essere vietata e non trovare spazio nel mondo della musica, della cultura e dell’informazione, così come da anni è vietata la pubblicità delle aziende del tabacco”. Eni è, infatti, uno dei maggiori sponsor dei più  importanti eventi culturali e musicali del nostro Paese.

Fino al 2014, in Italia, non esisteva un riferimento legislativo specifico per il greenwashing e il controllo era affidato all’Antitrust sotto la disciplina della “pubblicità ingannevole”. Oggi il greenwashing è controllato dall’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, e riconosciuto come pubblicità ingannevole.

Il greenwashing viene portato avanti non solo da aziende e compagnie – le quali non possono che perdere credibilità – ma anche da chi compra in maniera disinteressata. Bisogna informarsi su cosa si compra e sapere cosa c’è dietro, così da contrastare questo marketing dalla finta eticità.

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