Honey Don’t! di Ethan Coen

Coen dimezzati, ma la qualità no. È in sale un interessante “pulp movie”, secondo capitolo di una trilogia di B movie Queer

È un peccato che molti spettatori lasceranno cadere Honey Don’t! senza dargli una possibilità. Chi si aspetta un altro “Non è un paese per vecchi” rimarrà inevitabilmente deluso: qui non c’è la perfezione narrativa dei Coen, né la tensione morale dei loro capolavori. Ma sarebbe ingiusto liquidarlo per questo. Perché Honey Don’t! è un film coraggioso e curioso, un B-movie queer che osa sporcarsi le mani e cercare nuove forme, anche a costo di sbagliare. E, in un panorama sempre più omologato, l’errore consapevole è spesso più interessante della mediocrità inconsapevole. Dopo l’inciampo di Drive-Away Dolls , Ethan Coen torna con Honey Don’t!, suo seguito concettuale che gioca, eccede, deraglia e non si prende troppo sul serio. Graffiti e insegne al posto dei soliti credits, un gesto cinefilo, che mette subito in chiaro le regole del gioco: ma un B-movie consapevole, che rivendica sporcizia, leggerezza e libertà.

Il racconto, come la letteratura di Chandler o Lansdale, rimbalza tra l’essere brillante e il grottesco. Una detective privata, Honey O’Donoghue (Margaret Qualley), indaga sull’omicidio di una seguace di un culto religioso capeggiato da un reverendo sessuomane e sessista (Chris Evans). Da lì parte una cascata di deviazioni narrative (a volte) entusiasmanti.

La forza politica di Honey Don’t! sta proprio lì: nel piazzare desiderio lesbico, corpi femminili e ironia queer al centro di un noir che storicamente ha sempre marginalizzato le donne. Coen e la compagna Tricia Cooke (autori della sceneggiatura originale) non hanno una radicalità militante, e a tratti l’operazione resta più estetica che politica. Ma anche così, il fatto che un regista di questo calibro decida di fare una trilogia di B-movie lesbici nel cuore dell’industria americana è un atto di posizionamento culturale. Non spaccherà il sistema, ma che può essere considerato come un nobile precedente: autori leggendari che mettono la propria arte al servizio del cinema genere.

Il finale scivola nel Giallo all’italiana, più per vezzo che per necessità, e dimostra che il film non cerca coerenza narrativa: cerca atmosfere, transizioni stilistiche, frammenti di linguaggio pop rielaborati con mestiere. Non è grande cinema, ma è un cinema libero, e questo, oggi, ha ancora un valore. Honey Don’t! è un film imperfetto, disordinato, ma vivo. Un’opera minore, certo, ma che segna un passo avanti nel percorso solista di Ethan Coen. E se il terzo capitolo, Go Beavers!, saprà spingere di più sull’acceleratore politico oltre che cinefilo, allora questa trilogia di B-movie queer potrebbe diventare qualcosa di più che un divertissement.

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