Il Recovery fund: il confine tra politica ed economia nella UE

Dopo un’estenuante trattativa durata quattro giorni e tre notti, il consiglio UE straordinario ha approvato il bilancio pluriennale dell’Unione Europea 2021-2027 e uno strumento nuovo, tanto innovativo come dibattuto e avversato da alcune nazioni nord-europee: next generation UE, l’ampio programma di ripresa europeo di cui fa parte il Recovery Fund. Mentre il primo vale 1074 miliardi di euro, il secondo strumento ammonta a 750 miliardi di euro, stessa cifra del progetto originario della Commissione Europea. Nonostante ciò, l’accordo tra i leader europei ha notevolmente modificato l’impostazione inizialmente proposta dalla Commissione. Toccherà ora al Parlamento Europeo approvare definitivamente il piano in modo che questo entri definitivamente in funzione.

Concentrandosi su Next Generation UE, l’ammontare totale del fondo è di 750 miliardi di euro così suddivisi: 390 miliardi di sovvenzioni che non dovranno essere ripagate e 360 miliardi di prestiti, che dovranno essere poi rimborsati dagli stati che ne usufruiranno. Secondo la “allocation key” studiata dalla Commissione, all’Italia spetterebbero circa 81 miliardi di sovvenzioni e 127 miliardi di prestiti, per un totale di 209 miliardi di euro rappresentanti quasi il 28% dell’intero pacchetto. La vera svolta arriva nel metodo di finanziamento: per la prima volta nella storia, l’Unione Europea sarà in grado di finanziarsi autonomamente sui mercati tramite un “recovery bond” che dovrà essere ripagato entro il 2058. La maggiore stabilità finanziaria dell’unione dovrebbe garantire un rating AAA ai suddetti bond, che dunque avranno un tasso di interesse molto inferiore, ad esempio, ai BTP italiani. Il senso del recovery fund non è solo quello di accompagnare i diversi paesi a un ritorno su un sentiero di crescita economica, ma si traduce nella volontà di promuovere una politica comune su tematiche sensibili per il futuro: circa il 30% delle risorse infatti sarà vincolato alla sostenibilità ambientale, mentre un altro cospicuo ammontare sarà utilizzabile per rinforzare il processo di digitalizzazione. A questo proposito, coloro che vorranno accedere al piano dovranno presentare entro la fine del 2020 dei progetti di spesa molto dettagliati su come utilizzare questi fondi: i piani dovranno essere indirizzati in base alle raccomandazioni che la Commissione semestralmente invia ad ogni paese, e dovranno essere approvati dalla stessa prima di poter entrare in funzione. I fondi verranno erogati dal 2021 al 2023, sebbene il piano continuerà a essere in funzione fino al 2026. Cade dunque la richiesta olandese dell’approvazione all’unanimità di ogni singolo piano in sede di Consiglio Europeo, giungendo così al compromesso trovato: una volta che la Commissione avrà approvato il piano, la palla passerà al Consiglio Europeo, che dovrà a sua volta votarlo a maggioranza qualificata sebbene sia stato predisposto anche un “super freno di emergenza”. Questo è attivabile da uno stato che abbia dei considerevoli rilievi sul piano di un altro, e in questo caso le dispute saranno risolte all’Ecofin, l’organismo tecnico formato dai ministri dell’economia e delle finanze di tutti gli stati membri.

È impossibile non dare rilievo al cambio di passo della politica comunitaria europea. Fino a qualche mese fa l’ipotesi di un’unione finanziaria era pressoché impossibile, con la Germania capofila di quei paesi totalmente contrari alla mutualizzazione dei debiti sovrani. Sebbene il recovery fund sia solo temporaneo, è un precedente pesantissimo da cui l’UE dipenderà fortemente nei prossimi anni. In aggiunta, le condizionalità che sono emerse per utilizzare questi fondi non sono da demonizzare in toto: l’Italia ha bisogno di riforme strutturali che la rendano nuovamente competitiva, e assicurarsi che le ingenti somme di denaro in arrivo siano utilizzate effettivamente ed efficacemente per tali propositi è una garanzia non solo per chi i soldi li presta, ma anche per i cittadini che sono dalla parte ricevente. Se è storica l’alleanza tra i grandi paesi europei (Germania, Francia, Italia e Spagna) altrettanto significativa è la coalizione venutasi a formare tra quattro piccoli paesi del Nord-Europa, i cosiddetti “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia), guardiani del rigorismo nei conti pubblici e fondamentalmente convinti che l’Unione Europea sia più un accordo economico tra stati che una vera e propria espressione geopolitica. A conti fatti, essi sono i vincitori del Consiglio Europeo: il loro peso è stato determinante per raggiungere un accordo, e nel mentre sono riusciti ad ottenere condizioni economiche molto vantaggiose per le loro economie nazionali come un raddoppio dei “rebates” (sconti al versamento di fondi nel bilancio dell’unione).

La nascita della coalizione dei paesi “frugali” si mette di traverso alla storica collaborazione tra Francia e Germania, tradizionalmente i paesi che più erano capaci di esprimere il loro peso in sede Europea. Certo è che se i primi manterranno negli anni a venire una concezione dell’Unione come teatro di negoziazione economica in primis, e non come comunità di solidarietà oltre che politica ed economica, sarà molto difficile prevedere un futuro di prosperità comune alla luce delle esperienze di crisi che sono state attraversate dal 2008 a oggi. L’Italia ha invece un’occasione storica per tornare finalmente ad essere protagonista e ad assumere gli onori e gli oneri che sarebbero propri di una potenza del G7.

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