Jacqueline Woodson in dialogo con Igiaba Scego per Bambina nera sogna

Durante la penultima giornata della fiera “Più libri più liberi”, nella Sala Elettra, si è tenuta la presentazione del libro Bambina nera sogna, scritto dalla statunitense Jacqueline Woodson, edito da Fandango e tradotto in italiano da Chiara Baffa. A condurre la presentazione è stata la scrittrice italiana di origini somale Igiaba Scego, la quale è entrata in dialogo con l’autrice americana attraverso una serie di domande miranti a svelare la natura di un libro che è sia romanzo poetico, sia raccolta memorialistica di ricordi, sia ricostruzione narrativa di un passato collettivo – quello della segregazione razziale delle comunità nere nel sud degli Stati Uniti, e del processo sotteso alla loro liberazione. 

Bambina nera sogna è un romanzo in versi che racconta di amicizia, amore, legami familiari e diritti civili, facendolo«ad altezza di bambina», ovvero dal punto di vista della scrittrice da piccola, quando viveva, osservava e ancora non sapeva. Questo perché — nelle parole della stessa autrice — «le cose più importanti che mi sono successe mi sono capitate quando avevo tra i dieci e i quindici anni»: è una Jacqueline Woodson ragazzina a narrare, a mostrarci i ricordi di un’infanzia che, come il South Carolina antecedente al suo trasferimento a New York, «le scorre ancora nelle vene» e diventa, come tutti i luoghi dell’infanzia, un personaggio, che va ben oltre il punto di vista spaziale e temporale. È la scrittrice bambina a riportarci indietro, a un’epoca d’innocenza in cui la segregazione esisteva ma aveva l’apparenza di una «comunità amorevole», nella quale i neri avevano ogni diritto e si sentivano al sicuro; perché il pericolo era fuori e, da piccoli, non se ne conosceva neppure l’esistenza.

Ma, al contempo, è la scrittrice adulta che, nel guardare le situazioni e le persone che compongono la sua infanzia, si fa forte del suo punto di vista presente e «crea una nuova verità su di esse». Quella di Jacqueline Woodson è, quindi, una voce bambina-adulta, un punto di vista sia omodiegetico sia retrospettivo che illustra, anche se da ragazzina non lo sapeva, la demascolinizzazione degli uomini neri — finanche di leader come Martin Luther King — ad opera degli uomini bianchi. Ma anche il pericolo in cui questi ultimi versavano e il timore che si sarebbe prevato per loro, se solo si fossero avute abbastanza informazioni.

Woodson illustra e riconosce, inoltre, la forza delle donne nere che, nelle persone di sua nonna e di sua madre, si armavano di severità e imposizioni rigide pur di proteggere e proteggersi da una differenza – culturale, educativa, economica – che andava via via aprendosi tra loro e la nipote-figlia, nonché tra loro e il resto del mondo urbanizzato. 

Non è difficile riconoscere, in un libro come questo, quell’«elogio del margine» di cui parlava l’attivista e pensatrice nera bell hooks: un rilevare, portare al centro e mettere in evidenza il valore collettivo di storie e ricordi che, se forgiati con consapevolezza e inseriti nel contesto più generale a cui appartengono, sanno dire di più e raccontare, a partire dalla loro posizione ineludibile, di esperienze e vissuti generali e universali.

È questo che fa Jacqueline Woodson in Bambina nera sogna: quando la protagonista ci restituisce i suoi ricordi, lo fa attraverso un recupero che funziona come la memoria, e che quindi come la memoria va a intermittenza, muovendosi da rimembranza a oblio, da parola piena a spazio bianco. E quando l’oblio entra in scena, quando lo spazio bianco si allarga, è il panorama storico-sociale a intervenire e a rilevarsi; quel panorama storico-sociale a cui le memorie non possono che trovarsi intrecciate. «Io non ricordo di quando sono nata, ma so cosa è avvenuto nel contesto della mia nascita»: solo se raccontato, il margine può farsi storia collettiva; solo se narrato, lo psicodramma dei capelli che la bambina nera vive da piccola può diventare paradigma in cui tutte le altre bambine nere possono riconoscersi; e solo se detta ad alta voce, la presa di coscienza esistenziale e politica, che avviene tramite l’accettazione dei propri capelli afro, può farsi simbolo di un intero gruppo in rivolta. 

Se questo specifico margine, negli Stati Uniti, ha cominciato da tempo a trovare una voce che lo cantasse e lo portasse al centro, in Italia, come ribadito da Igiaba Scego, il cammino verso la multiculturalità è solo all’inizio e un nuovo linguaggio, che sia realmente inclusivo, deve essere ancora costruito. È così che libri come quello di Jacqueline Woodson possono farsi portatori del senso di una «comunità e di un dialogo globali» tra culture che possano portare il riconoscimento, anche laddove sembra regnare solo la differenza.

Un dialogo in grado di valorizzare la differenza laddove si vorrebbero solo identità sovraimposte e appiattimento deculturalizzante. Un piccolo esempio di questo compare a margine: in italiano non c’è un termine adatto per tradurre la parola «brown», presente nel del titolo del libro; un termine specifico usato per indicare le persone di origini indopacifiche e asiatiche. Non solo bambina «nera», quindi, ma anche «marrone»: una differenza accogliente, un invito ad allargare il panorama culturale dell’identificazione, affinché il linguaggio possa farsi finalmente una «festa a cui sono invitati tutti, anche nelle loro differenze». 

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