Mostro di Firenze, alcuni disegni rivelano il famoso “secondo livello”

Uno dei cantieri cui neppure l’attuale Commissione Parlamentare d’Inchiesta ha saputo sbrigare nell’arduo avanzamento dei lavori, è quello che vede le sue transenne fissate davanti al franoso terreno del Mostro di Firenze. 

Transenne quarantennali ormai che rischiano di mettere radici su un caso divenuto quasi mitologico, e pertanto “prescritto” dalla più credibile consuetudine mediatica che vicenda giudiziaria.

Le indagini sull’identità dell’artefice dei delitti seriali fiorentini commessi tra il settembre del 1974 e il settembre del 1985 (sono tre gli omicidi avvenuti durante questo mese, e un altro sempre ad inizio stagione autunnale, ottobre 1981) sembrano essersi smarrite nel fitto mistero di questo caso.

Lo stesso valga per il parallelo caso Orlandi di cui l’attuale commissione Antimafia si sarebbe dovuta occupare urgentemente per rendere almeno metà di quella giustizia che attendono i familiari della ragazza scomparsa nel giugno del 1983. 

La scomparsa di Emanuela Orlandi è infatti neanche troppo estranea alla faccenda del Mostro, se la Banda della Magliana sarebbe stata anche il collante, nella ipotetica figura di Angelo Izzo, tra l’ambiente perugino del gastroenterologo Francesco Narducci e l’ambiente fiorentino del Pacciani. Per questo il parallelismo cronologico non è trascurabile.

La natura delle indagini condotte finora è stata estremamente variegata di più campi e studi pluridisciplinari, concentrandosi con un certa prevalenza sugli aspetti sociologici e tanatologici degli eventi e degli attori ad essi ricollegati. Il livello psicologico e criminologico degli inquirenti che si è così altamente elevato nel giro di pochi anni dall’ultimo delitto ha infatti dato inizio agli studi di mostrologia, una nuova branca investigativa nata a seguito della SAM: la Squadra Anti Mostro. Questo fu un primo passo che avvicinò l’attività della magistratura e dell’arma dei carabinieri e della polizia alla necessità di impiegare anche i ricercatori e professori universitari anche di storia antica. 

Per la comprensione di quello strano “grembiule” in lino trovato sulle parti intime del Narducci, all’interno dei pantaloni, durante l’autopsia a Pavia del 2002, fu infatti richiesta da Giuliano Mignini la consulenza del critico Massimo Introvigne, esperto di religioni antiche. Introvigne fu il primo con la sua perizia tecnica a sciogliere le nebulose supposizioni e a dare la conferma  a Mignini che quello del Narducci col cosiddetto “Mostro di Firenze” era un coinvolgimento rituale di tipo massonico-esoterico, proprio di una massoneria deviata ipotizzata dallo stesso procuratore perugino.

Si è a lungo parlato verso gli inizi del 2000 e proseguendo fino a qualche anno fa, di una gerarchia di livelli legata alla fenomenologia del Mostro, una opinione aperta da quando si è iniziato a discutere sulla pluralità di individui responsabili degli omicidi e che viene tuttora condivisa da molti inquirenti. Secondo questa opinione che rimane per larghi tratti a noi molto verosimile, data la estrema articolazione e concomitanza di elementi che sussistono in diversi soggetti tutti appartenenti sia alla cerchia fiorentina (tra cui i cosiddetti “Compagni di Merende”) sia alla cerchia del Trasimeno, alla base di questa piramide ci sarebbe un “primo livello” che a sua volta sarebbe gestito da un altrettanto “secondo livello”, forse quest’ultimo inferiore a un terzo invisibile ed ultimo livello.

Risalire alla vetta della piramide sembra cosa quanto più lontana, almeno oggi, dalle nostre possibilità, ma dilatare lo squarcio che si crede aperto dalla morte del medico Narducci è necessità primaria se non impegno irrinunciabile davanti agli sprazzi indiziari di luce trapelata da alcune feritoie del secondo livello. 

Cosa sia questo secondo livello è la domanda a cui si è cercati di dare tante risposte quante  alla fine autoschediasmi, e il nodo attorno cui si bloccano i fili del processo al Mostro, è uno solo, ed è sempre il solito: quale funzione avesse questa sopraelevata commissione oligarchica verso la sovraregionale società di appartenenza? In altre parole, quale fosse la costituzione di questo “secondo livello”. 

Per poter capire la valenza di detta dogmatica costituzione, dovremmo partire proprio dalle tracce della sua interazione con le circostanze individuate prossime, anche geofisicamente, ai luoghi dei delitti.

Una di queste tracce, oltre alla famosa Beretta calibro 22, sono i non abbastanza studiati e considerati sul piano inquisitivo disegni di Pietro Pacciani. 

Si tratta di una serie di disegni realizzati in carcere prima di essere trovato anche lui ucciso in condizioni non molto chiare. Disegni di argomento miscellaneo, alcuni raffiguranti soggetti antropomorfi altri invece soggetti zoomorfi e altri ancora di pura fantasia, che pur non avendo un particolare valore artistico, tradiscono però una importanza psichiatrica e antropologica dell’individuo già accusato una volta dalla Corte di Firenze d’essere lui il vero Mostro e mandante degli omicidi. Una importanza testimoniale non tanto per il carattere psicologico del Pacciani, ma per il tenore fisionomico delle sue relazioni culturali e sociali che gli hanno permesso di cavare una precisa iconologia all’interno delle sue raffigurazioni. 

I disegni che il Pacciani abbozzò in cella, sono consapevolmente incompleti, cioè non destinati ad una esposizione pubblica, considerando anche la scarsissima condizione emotiva in cui il detenuto si trovava, e soprattutto non sono per l’autore delle vere opere d’arte, ma perlopiù dei scarabocchi estemporanei di una immagine interiore. Il contadino di Mercatale annotava su quelle carte le figure di una espressione mentale interiore che risulta avesse due polarità irrequiete e repentine. Il pensiero del Pacciani non è mai stato tacciato di rigidità monolitica, quasi come quello del compagno Mario Vanni o di Giancarlo Lotti, ma si definiva, anche nelle sue attitudini verbali durante gli interventi della difesa a processo, insolitamente elastico e maggiormente fluido. Una fluidità la sua, capace di addurre nel dibattito con le autorità giudiziarie, con una limitata esitazione temporale, con scarso indugio elaborativo cerebrale, sempre nuovi intermezzi locutorii, nuove trasformazioni linguistiche derivate da confessioni orali aneddotiche, nuove parti narrative di testimonianza e sempre più precise dichiarazioni descrittive all’atto perorativo. 

Non si è mai del resto nascosta la creatività fantasiosa del Pacciani e il suo compiacimento quasi un po’ dal sapore redentore per delle sue esternazioni moralistiche o pacifistiche in aula. 

Ne risulta dunque una personalità che contaminata da un influsso culturale molto distante dal suo alfabeto di matrice popolare, riesce proprio grazie a quella frequenza consolidata con quella sfera che noi forse dovremmo chiamare “forestiera” o comunque a lui “straniera”, a dissimulare lo strato più elementare delle cose, avvezza a un’operazione di continuo oscillare dal banale verace genuino all’arcano religioso sibillino. La materia a cui la sua vita è legata, è riconosciuta bruta dal contadino, perciò l’intenzione velata che più spontanea gli arriva è quella di conservarsela bruttezza sul fondo, giustificandone la condizione con un cambio di rotta emotivo dettato da una volontà di cambiare tenore di vita, registro linguistico e tenore.

Da questa esigenza, o propensione, derivano i forestierismi del linguaggio interiore, responsabili di questa inversione di rotta repentina sul piano cognitivo-acquisitivo di Pacciani, che lo portano a passare da alcuni soggetti figurativi come l’agnello sacrificale che suscita pietà nell’autore, ad altri come la prostituta travestita da pelle caprina che sevizia un uomo anch’esso ugualmente travestito.

È questo il tipo cui appartengono le rappresentazioni a matita del Pacciani. Sono disegni che inoltre hanno la costante abitudine di essere accompagnati da vignette didascaliche, che riportano dialoghi tra personaggi nelle scenette oppure illustrano l’ironia di alcune raffigurazioni a tratti un po’ satiriche. 

Anche i disegni tuttavia si fanno portatori delle stesse situazioni controverse che legano l’autore alla vicenda del Mostro. È la controversia in sé l’elemento principale di cui Pacciani si è fatto portatore durante gli anni del processo,  ovvero l’impossibilità di capire laddove la verità col dettaglio diventa bugia. 

I suoi disegni eseguiti a punta di matita contengono delle fonti iconologiche, ovviamente non mutuate con cognizione dalla tradizione storiografica, ma assorbite per assuefazione ex contactu, che rivelano una conoscenza, seppur ingenua, di pratiche rituali esoteriche e a sfondo erotico-sacrificale. Scene in cui un uomo dalle fattezze grossolane, le stesse di un ceto contadino, bacia un lupo mannaro, oppure scene in cui l’atto sessuale della penetrazione è messo in evidenza quasi non casuale, ma evocativa di qualcosa di perversamente animale e al tempo stesso rituale. Oppure uno scimmione ripreso nell’attimo di defecazione che presenta un peculiare trattamento grafico derivante quasi da piccoli modellini statuari lignei usati come soprammobili o come oggetti d’officio celebrativo in contesti paraliturgici e satanici. 

Il clima che evocano i disegni del Pacciani è quello di una tensione all’eversione dalle regole sociali, dai comuni rapporti umani. È suggerito dalla memoria fascinata con cui ripercorre certe forme mentali nella raffigurazione, il contatto con un ambiente misterico, in cui è condiviso un codice etico del sesso come iniziazione a una società parallela a quella civile, che si maschera di elementi allusivi alla tradizione giudaico-sionistica del capro espiatorio, e delle unioni promiscue alla stregua di animali. Il clima che evocano i disegni è dunque occulto, sprezzante del reale, degli stessi magistrati, della legge, e tradisce un certo fascino ingenuo da parte di Pacciani verso quelle situazioni settarie e sinistre che Angelo Izzo descrive riferendosi all’omicidio di Rossella Corazzin, la cui uccisione sarebbe stata celebrata, a suo dire, nella villa del medico perugino.

Osservando i disegni del Pacciani sarebbe forse possibile risalire al prodotto sociale del presunto secondo livello che si cela dietro il caso del Mostro di Firenze.

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Mauro Di Ruvo
2000, Bari, Critico d’arte, classicista e medievista. Redattore di Politica interna. Attualmente si occupa di Etruscologia e Diritto Romano a Perugia, dove conduce indagini sperimentali in Archeologia Classica. Si è occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni), e curatore della recensione al libro Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo di Gabriella Izzi Benedetti, già presidente del Comitato per l’Unesco, per la collana fiorentina “Libro Verità”. Ha già curato per la “Delta Tre Edizioni” le prefazioni alla silloge Lo Zefiro dell’anima (2019) di Pasquale Tornatore e al romanzo Le memorie del dio azteco (2021) dello storico Saverio Caprioli. A novembre 2023, ha curato il Convegno “L’ombra del doppio: la dicotomia nella poiesis” nella città di Lavello.

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